Il CREA presenta la Carta dei suoli: uno strumento per mappare in dettaglio i suoli coltivabili. Intervista al direttore Giuseppe Corti sul futuro dell’agricoltura italiana tra colture innovative, crisi del settore ed esigenze ambientali.
In Italia il suolo coltivato ha perso tra il 2 e il 3% di sostanza organica dal secondo dopoguerra ad oggi. I due terzi dei suoli coltivabili del paese sono definiti “degradati”. Questi dati allarmanti sono emersi da un incontro dal titolo “Ritorno al suolo: dagli strumenti della ricerca all’impegno delle istituzioni” organizzata dal CREA – Consiglio di Ricerca in Agricoltura e dalla Presidenza della IX Commissione del Senato (Industria, commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare). In particolare nell’occasione si è parlato diffusamente di uno degli strumenti che, nelle intenzioni, sarà basilare per un ritorno alla migliore gestione del suolo. Nel 2026 infatti sarà pubblicata la “Carta dei suoli d’Italia”: una mappatura in scala 1:100.000 in corso di preparazione dagli esperti del CREA. La carta è destinata ad agricoltori, imprenditori, agronomi ed altri addetti ai lavori che potranno avere una fonte di informazione molto più dettagliata rispetto al passato sulle caratteristiche dei suoli di tutto il paese, in modo da poter decidere le colture e le tecniche più adatte e produttive per ogni porzione di territorio. A margine del convegno abbiamo avuto occasione di parlare con Giuseppe Corti, direttore di CREA Agricoltura e Ambiente, per approfondire questo progetto e altri aspetti del rapporto tra agricoltura, suolo e natura.
Direttore, che cos’è il suolo per un agricoltore?
Vorrei sottolineare che a cominciare da una trentina d’anni fa gli agricoltori sono un po’ cambiati. Prima si poteva dire che gli agricoltori, pur rispettando la loro grande esperienza, erano a volte in difficoltà ed agivano in base a cognizioni un po’ superate. Da qualche decennio la cosa è diversa. C’è gente nuova: persone laureate che conducono le aziende. Sono diversi l’atteggiamento, le aspettative, la capacità di tante aziende di far parte dei progetti com’era impensabile trent’anni fa.
Una volta il suolo era solo un substrato. In Toscana si dice “la terra para anche le saette”: ovvero regge tutto, gli puoi fare quello che vuoi. Purtroppo questo atteggiamento è durato nel tempo e non ha portato bene. Non do colpe a nessuno: non c’è bisogno di dare colpe. Non c’è dubbio però che gli agricoltori, dal secondo dopoguerra fino a tutti gli anni ’90, qualche danno lo hanno fatto. Colpa loro? Io dico di no: è il sistema che li ha portati a far così. Perché per mandare avanti la famiglia, un agricoltore, un contadino, deve fare in un certo modo. È il sistema che ti paga 18 euro per un quintale di grano, quando per smaltire la spazzatura ci vogliono 30 euro al quintale. È il sistema che ti fa spendere 50 euro per comprare un prodotto fitoiatrico (preparati per proteggere le piante da malattie e parassiti, ndr.). Quindi la colpa è di un sistema che ha chiesto agli agricoltori di comportarsi in un certo modo, altrimenti dovevano andare a fare un altro mestiere. Il più delle volte queste persone – amanti del territorio e del proprio lavoro – sono rimaste nonostante tutto: qualche volta sapendo che qualcuno l’avrebbe pagata in futuro; altri erano inconsapevoli, ma qualcuno lo sapeva. Più o meno è quello che facciamo la mattina quando mettiamo in moto la macchina per andare a lavorare: la macchina inquina, ma che devo fare?
Oggi la cosa è un po’ diversa: c’è gente consapevole; sa che certe cose sono dannose ed ha iniziato a non farle. Hanno iniziato a guardarsi intorno: molte aziende partecipano a progetti (l’Unione Europea giustamente permette questo); e c’è gente che ha la capacità di capire che cosa è più giusto in un determinato posto. Perché va detto che non esiste una ricetta valida per tutte le aziende, in tutta Italia: bisogna avere la conoscenza dei tre ettari dove ho il mio vigneto, la mia coltivazione di cereali, dove faccio quella rotazione, dove faccio l’erba medica, dove faccio le colture più strane. Oggi facciamo la quinoa? Non posso prendere un campo qualunque e metterci la quinoa; altrimenti arrivo a fine anno è ci ho rimesso soldi. Per un agricoltore rimetterci soldi, anche per un anno solo, il più delle volte significa chiudere. Questa è avventatezza, che è un po’ tipica dei nostri giorni. Perciò bisogna dare un aiuto affinché l’avventatezza non si trasformi in rimessa: ci devono essere le conoscenze per poter fare cose anche molto innovative. Sta parlando con qualcuno che ha provato il teff: è un cereale etiope senza glutine. L’abbiamo provato. Funziona. Produce anche una bella quantità: 6-7 quintali per ettaro. Quindi ci vogliono capacità e conoscenze per tentare anche cose nuove, senza che l’agricoltore ci rimetta.
In questo discorso entra la Carta dei suoli. Che cos’è? Come sarà fatta? E perché?
Quella esistente è vecchia di 60 anni ed ha una scala molto più bassa. Noi la faremo in scala 1:100.000. Non è una scala eccezionale: a livello di azienda (per differenziare i campi delle singole aziende, ndr.) dovremmo andare più bassi; ma per ora è ciò che si può fare e spero che fra venti o trent’anni sarà sostituita con una 1:50.000.
La carta ci dice che tipo di suolo abbiamo. Non ci dirà se in un punto possiamo mettere o meno i ceci: è uno strumento per personale esperto, destinato soprattutto ai professionisti; ma anche a quei conduttori d’azienda che, ad esempio, sono laureati in agraria e quindi hanno capacità di dirimere. Sulla carta ci sarà scritto: questo suolo è un “gleyic cambisol”, che a una persona comune non dice nulla ma per chi ha familiarità con i suoli dirà che è abbastanza profondo, sufficientemente fertile, che soffre di ristagni idrici perché non ha un buon drenaggio. Da questa conoscenza si possono capire, provare, suggerire quali siano le colture, il sistema colturale oppure la rotazione più adatta per quel tipo di suolo. Si possono ancora fare risaie in Italia? Dove? Si fanno tentativi? No. Ci vogliono dei suoli con determinate caratteristiche, la principale delle quali è che non perdano acqua dal fondo; ce li abbiamo, ma se non sappiamo dove sono non possiamo nemmeno avventurarci in questo tipo di esperienza.
Chi finanzia la carta? E chi la realizzerà?
I soldi sono del PNRR, gestiti dal MASE (Ministero dell’Ambiente, ndr.) con un altro contributo dal MASAF (Ministero dell’Agricoltura, ndr.). La realizzerà un’azienda che si è aggiudicata il bando del MASE, che poi ha finanziato l’attività dei rilevatori. Infatti qui si tratta di andare in campo a fare delle buche in terra: con il bobcat quando è possibile; ma in montagna con i propri muscoli, la pala, la zappa e la vanga. I rilevatori sono stati formati da personale del CREA, tra cui anche il sottoscritto. Faranno circa duemila rilevamenti, che si aggiungono alle circa 13.500 che abbiamo già.
Durante il convegno lei ha denunciato la perdita di suolo coltivato in Italia, ed ha parlato in maniera negativa della rinaturalizzazione di aree ex agricole, principalmente montane e periurbane. Agricoltura, rinaturalizzazione, riforestazione, aree selvatiche sono in competizione?
Non sono in competizione. Le coltivazioni, le foreste, le aree naturali non devono essere in competizione; devono essere in armonia. Come succede anche a livello mondiale, abbiamo un terzo del territorio coltivato, un terzo coperto da foreste (che può essere coltivata o naturale) e un terzo di suolo naturale (incolti, pascoli, suoli non coltivabili ecc. ndr.). Poi ci sono le zone urbanizzate: siamo attorno al 7-7,1%. Negli ultimi quarant’anni abbiamo perso 2 milioni di ettari coltivati a cereali. Una cifra impressionante. Sia chiaro che non avremmo mai la terra per coltivare tutto il grano necessario a sfamare il popolo italiano e sostenere l’agroalimentare che esporta pasta in tutto il mondo. Noi dobbiamo importare; ma importare il 40% o il 60% fa una bella differenza.
Inoltre, se riuscissimo a recuperare quei suoli abbandonati riusciremmo a portare anche un presidio umano sul territorio. L’acqua va in discesa: non avere persone sul territorio significa abbandonare le sistemazioni idrauliche agrarie. Sono quelle cose che gli agricoltori fanno dalla notte dei tempi, e che indirizzano l’acqua in modo che faccia meno danno possibile. Chi può andare in montagna o in alta collina a fare i fossetti o l’acquidoccio (canalizzazioni in muratura, ndr.)? Un dipendente del comune o della regione? E con quali soldi? Nessuno può far questo con i fondi degli enti locali. Lo possono fare gli agricoltori che stanno lì e che ne traggono un vantaggio. Perché se l’acqua defluisce ordinatamente succedono due cose: non danneggia il suolo; e soprattutto ce n’è di più per il periodo estivo. Abbandonare i suoli nelle cosiddette zone svantaggiate (montagna, alta collina) non fa bene né all’agricoltura né alla tenuta generale del sistema; perché tutto questo poi si traduce in alluvioni, morte, distruzione, e soldi per riparare danni che avremmo potuto evitare. Non dico che recuperando i suoli abbandonati le alluvioni non ci saranno più, ma saranno sicuramente molte meno: significa ridurre la percentuale di rischio idraulico per ogni bacino.
Insomma, non competizione ma armonizzazione, e recupero di terre che già erano agricole. Qualcuno pensa che la rinaturalizzazione possa avvenire lasciando fare alla natura. Questo è un paese dove si è iniziato a modificare il territorio dal 1100-1200 avanti Cristo. Cioè oltre 3.000 anni. In Italia non esiste un metro quadrato di suolo che possiamo definire naturale, se non al di sopra dei 2.800-2.900 metri di altitudine. Tutto il resto è stato utilizzato massicciamente dall’uomo dai 500 ai 3000 anni. In questa situazione quale naturalità si spera che l’ambiente recuperi? Quella di mille anni fa? Di duemila anni fa? Quella attuale? In ogni caso potremmo anche averla, ma dovremmo sopportare morte e distruzione, perché nel frattempo il sistema generale deve riequilibrarsi; e ciò significa che l’acqua dovrà scavare nuovi fossi, dare luogo a nuove frane ed esondazioni che produrranno nuovi territori. Perciò, per un’ipotetica rinaturalizzazione, dobbiamo andare incontro a disastri, morte e distruzione, probabilmente per due o trecento anni, come dice chi ha esperienza?
Questo però chi lo sostiene? Chi lo vorrebbe?
Ci sono dei settori nel nostro paese che dicono sia, meglio lasciare che tutto riprenda la sua naturalità. Per me è meglio recuperare quelle terre. Mettiamoci d’accordo: facciamo un’agricoltura più delicata, delle culture innovative, di grande reddito, in zone svantaggiate: si spende meno anche per la manodopera e per le tasse. L’azienda agricola non si mantiene soltanto se aumenta la produzione e quindi vende di più; si mantiene anche se gli riduciamo le spese. Con una produzione innovativa, intelligente, condotta con metodi razionali, scientifici, e una riduzione delle spese connesse alla produzione, possiamo mantenere un’azienda agricola anche in quelle che oggi sono considerate zone svantaggiate: quelle delle aree interne. Se le ripopoliamo è un vantaggio per tutti. Quei soldi che loro non pagano di tasse non sono una rimessa, ma un meraviglioso investimento.