"Mosaico della caccia" III-IV sec. d.C. Villa romana del Casale, Piazza Armerina - Enna
Cambiamento Climatico Ecosistema Interviste

Alessandro Barbero: breve storia della guerra dell’Uomo contro la Natura

Cambiamento climatico, migrazioni, consumo di suolo ed estinzioni di specie animali non sono una novità del XXI secolo. Lo storico, scrittore e celebre divulgatore Alessandro Barbero ci racconta come i nostri antenati si rapportassero a una Natura che per gran parte della Storia abbiamo considerato ostile.

Il cambiamento climatico che stiamo vivendo non è il primo della storia. Nelle polemiche nate intorno a questo argomento, i negazionisti affermano che queste variazioni sono naturali, e che già in altri periodi storici le temperature si erano alzate per poi riabbassarsi, e viceversa. È noto ad esempio, per limitarsi all’Italia, che il clima al tempo dei romani era più mite di quello attuale; mentre nel medio evo le temperature diventarono più rigide. Ma quali conseguenze portarono questi cambiamenti per i nostri antenati? E soprattutto: è già successo che l’uomo abbia sfruttato le risorse del pianeta tanto da cambiarne gli equilibri naturali? Ecosistema, la rubrica settimanale di Earth Day Italia trasmessa da Radio Vaticana Italia, lo ha chiesto ad Alessandro Barbero, apprezzato divulgatore, scrittore e docente di Storia medievale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale.

Professor Barbero e il clima è una variabile mutevole nell’arco della storia umana. In quali periodi e in quali luoghi un cambiamento delle condizioni ambientali ha influenzato il corso degli eventi?
Non la prendiamo troppo alla lontana, altrimenti dovremmo parlare anche di ere glaciali, e di come i nostri antenati di decine di migliaia di anni fa si siano trovati a un certo punto a dover fare i conti con un mondo da cui sparivano i vegetali, gli animali, e diventava impossibile vivere al di sopra di una certa altitudine. Ma questo riguardava tribù di cacciatori e raccoglitori di cui noi sappiamo ben poco. Parliamo della storia vera e propria, gli ultimi quattro-cinquemila anni per i quali abbiamo informazioni un po’ più precise. Sappiamo con certezza che alcuni dei momenti di maggiore sviluppo della società umana in Europa, medio oriente e Mediterraneo, per esempio l’epoca di grande fioritura della civiltà romana, dell’impero romano da Augusto fino agli Antonini, fino al I e II secolo d.C., sono state epoche di clima caldo; che però all’epoca non voleva dire “ troppo caldo”, come rischiamo di vedere oggi. “Clima caldo” vuol dire semplicemente che negli ultimi millenni abbiamo visto alternarsi fasi, lunghe qualche secolo, in cui faceva più freddo, pioveva di più e nei momenti sbagliati (per esempio in estate, rovinando i raccolti); e altre fasi in cui invece la temperatura media era di un grado in più, che fa tutta la differenza per i raccolti. 
I nostri antenati, fino alla Rivoluzione Industriale, dipendevano dai raccolti. Che parliamo degli antichi greci, degli antichi romani, del Medioevo o di Napoleone, sempre e comunque il “raccolto dell’anno prossimo” era la cosa decisiva: quella che tutti aspettavano con una certa ansia. Non solo i poveri, che se il raccolto andava male rischiavano di morire di fame; ma anche i politici: tutti dovevano sapere come sarebbe stato il raccolto successivo, perché da esso dipendeva se avrebbero potuto fare tante cose oppure no.

“Mosaico della caccia” III-IV sec. d.C.
Villa romana del Casale, Piazza Armerina – Enna

Noi sappiamo che l’epoca di Augusto e dei primi imperatori romani è stata un’epoca positiva, da quel punto di vista; e sappiamo che l’epoca delle invasioni barbariche e dei regni romano-barbarici, i cosiddetti secoli bui (davvero secoli di declino e di degrado, anche ambientale) sono stati segnati anche da un peggioramento climatico. Poi invece c’è stata la grande fioritura della civiltà medievale, quando il mondo ha interrotto il declino ed è diventato invece un’avanguardia della modernità: il medioevo di Dante, delle grandi cattedrali, di Marco Polo, dei comuni. Ecco: quella è stata di nuovo un’epoca calda. Tra l’anno Mille e il 1300 sono stati secoli caldi; i raccolti venivano bene, si commerciava facilmente perché i passi alpini non erano ostruiti dalla neve e per gran parte dell’anno erano accessibili. Dopo c’è stata di nuovo un’epoca drammaticamente fredda, che gli storici chiamano la “piccola era glaciale”, cominciata già nel Trecento e poi accentuata da fine Cinquecento. Il Seicento e il Settecento sono stati secoli freddissimi. A inizio Settecento si attraversava a piedi la Senna nel centro di Parigi: una cosa che oggi sarebbe impensabile. Questa piccola era glaciale è l’ultimo momento conosciuto in cui effettivamente il clima cambia drammaticamente senza un intervento umano. Poi la piccola era glaciale è finita, più o meno a fine Ottocento. Il Novecento è stato un secolo caldo. All’inizio la cosa era, o almeno sembrava, del tutto naturale ed era positiva. Adesso invece stiamo facendo i conti con l’ipotesi, molto concreta, che il riscaldamento del clima, per la prima volta nella Storia, l’abbiamo provocato noi. E rischia di diventare un dramma.

Un altro luogo comune è che la Natura, il pianeta, non si sia accorto della presenza umana fino all’età industriale, quando abbiamo cominciato a fare grandi opere, come le dighe, e a immettere tanta anidride carbonica nell’atmosfera. C’è un po’ quest’idea che al tempo degli antichi romani, ma anche nel Medioevo, si vivesse ancora in un “eden naturale” pieno di foreste, animali e così via. Però la Storia insegna che già i nostri antenati avevano inciso profondamente, in vari periodi, sul territorio e sulla biodiversità del loro ambiente. Possiamo citare qualche esempio?
Sì, gli esseri umani sono “formiche” che hanno sempre avuto un impatto piuttosto pesante sulla crosta terrestre. Questo non vuol dire ovviamente che modificassero la Terra nella profondità del pianeta, e neanche che modificassero più di tanto l’atmosfera, come invece stiamo facendo noi. Ma per la crosta terrestre, l’ambiente vegetale e animale, l’impatto umano è stato certamente molto forte. Le prime civiltà del medio oriente si basavano sull’irrigazione, quindi sul fatto di controllare i corsi d’acqua, scavare canali, portare l’acqua dove da sola non sarebbe arrivata, rendere coltivabile un terreno che prima non lo era. I romani hanno vissuto in un mondo dove certamente c’erano ancora molte foreste, montagne piene di animali feroci, ma ciò era tenuto segregato, rispetto alle zone dove viveva l’uomo. Per i romani c’era una nettissima distinzione fra il “selvaggio” e quello che invece era “umanizzato”: dove vivevano, gli uomini modificavano il territorio. Il mondo romano è un mondo di campagne regolate dall’uomo, con canali, strade, suddivisioni addirittura matematiche. Quando conquistavano un paese i romani introducevano la cosiddetta “centuriazione”, cioè ritagliavano nelle campagne una serie di lotti, tutti uguali e ben serviti dalle strade e dai canali di irrigazione. Poi li assegnavano ai legionari in pensione e ai nuovi coloni romani che andavano a stabilirsi lì. Quindi l’impatto era notevole. Col crollo dell’Impero Romano c’è stato un ritorno della natura selvaggia, perché effettivamente i re barbari alla fine scoprirono di non avere più mezzi, soldi e neanche le conoscenze tecnologiche per tenere in piedi acquedotti, fognature, canalizzazioni. In più la popolazione era diminuita. L’epoca delle invasioni barbariche è stata anche un’epoca di epidemie. Quindi nei secoli dell’alto Medioevo, diciamo fino a Carlo Magno (VIII-IX secolo, nda.) effettivamente l’Europa è tornata ad essere un mondo più selvaggio, dove le zone abitate dall’uomo si sono ridotte: come piccole isole o radure in un mondo di foreste. Qualche antropologo dice che risale a quell’epoca tutto il nostro immaginario che si ritrova nelle fiabe: i bambini che si perdono nel bosco, il lupo cattivo nella foresta e così via. Però poi è cambiato di nuovo, perché il Medioevo dopo il Mille è un’epoca completamente diversa. Un’epoca di crescita travolgente, dell’economia e della popolazione; e per dar da mangiare alla gente bisognava bonificare le paludi, e soprattutto abbattere i boschi. Per cui già nel Medioevo, a un certo punto si è posto un problema ecologico. A fine Duecento ci sono stati i primi interventi di legge che in una certa zona hanno detto: adesso basta tagliare quel bosco, perché un po’ di bosco ci serve. Il legno era indispensabile come materia prima. Facevano tutto col legno. Però, a forza di abbattere boschi per fare campi, coltivare grano e dare pane alla gente, già a fine Duecento in certi casi ci si era accorti che non c’erano più abbastanza boschi e bisognava difenderli. Quindi, in realtà, gli uomini civilizzati dall’invenzione dell’agricoltura hanno modificato l’ambiente.

Dalla seconda metà del secolo scorso si è fatta largo, direi faticosamente, una nuova filosofia del nostro rapporto con la Natura: non il dominio su qualcosa messo a nostra disposizione dalle regole della filosofia o della religione, ma qualcosa con cui dobbiamo rapportarci ed essere in contatto. Ci sono stati altri momenti nella Storia in cui gli animali e le piante erano visti non come beni di cui disporre senza limiti, ma invece come qualcosa di vivo e degno di rispetto?
Effettivamente, prima della Rivoluzione Industriale gli esseri umani non hanno mai avuto la sensazione che la Natura rischiasse di sparire perché gli uomini distruggevano tutto. Anzi, la sensazione dominante era che noi fossimo un po’ assediati dalla Natura: dal lupo cattivo; dai territori dove non si può vivere perché ci sono le paludi e la malaria. Questa sensazione che l’ambiente naturale non fosse affatto padroneggiato, e che l’uomo dovesse continuamente lottare contro la Natura, è indubbiamente la sensazione prevalente nella storia umana. Nelle “ideologie” che gli uomini si sono dati, è sempre stata dominante l’idea: “il mondo è stato creato per noi e quindi noi ci facciamo quello che vogliamo”. Però le due cose erano collegate: noi ci possiamo fare quello che vogliamo perché comunque abbiamo la sensazione che la Natura sia inesauribile, immensa, anche in parte ostile; e quindi facciamo bene a cercare di dominarla. Comunque, se non ci dessimo da fare, vincerebbe sempre lei. Solo da poco tempo abbiamo invece la sensazione che noi uomini siamo così potenti da rischiare di vincere questa guerra, e distruggere la Natura.
Però, anche in passato, qualche momento [di riflessione] c’è stato, devo dire. Quando studiavo le invasioni barbariche mi ha colpito enormemente il testo di un politico romano del IV secolo d.C in cui mi sono imbattuto. Un politico di Costantinopoli, che quindi scrive in greco: Temistio, un senatore dell’impero romano. Temistio loda gli imperatori del suo tempo i quali hanno imparato che i barbari non bisogna ucciderli tutti, perché sono esseri umani anche loro. Ormai l’Impero Romano è cristiano e quindi non bisogna uccidere questi uomini, anche se sono barbari, selvaggi come animali; bisogna mantenerli e civilizzarli. Per affermare questa cosa Temistio dice: “in fondo noi ci preoccupiamo che non spariscano gli elefanti dall’Africa, gli ippopotami dal Nilo, i leoni della Tessaglia, e non dovremmo preoccuparci anche che non spariscano questi popoli barbari? Che sono barbari sì, però sono uomini”. Io non mi sarei mai aspettato che i romani del IV secolo avessero la preoccupazione “ecologica” che, a forza di cacciarli, gli elefanti potessero scomparire. Però evidentemente ce l’avevano: il testo è lì, nero su bianco.
Quindi, effettivamente, c’è stato qualche momento in cui questo spirito, diciamo “conservativo”, ha cominciato a prendere forma. Però sono momenti rari, perché in seguito comunque ha prevalso di nuovo la sensazione che la Natura sia immensa, inesauribile e noi ci dobbiamo difendere da essa. Ad esempio, ancora non solo nel Medioevo, ma nel Seicento e Settecento si percepiva il lupo come un pericolo, ed era meritorio sterminare i lupi. Si davano premi. Si dava la caccia ai lupi nella stagione in cui facevano i piccoli, proprio per prenderli e uccidere anche loro. Non è difficile capirlo: perché oggi che invece il lupo ci sembra una ricchezza ci accorgiamo che abbiamo sottovalutato il fatto che chi lavora in campagna e in montagna allevando il bestiame, non può starsene tranquillo mentre i lupi gli divorano le bestie. Sono problemi che avevamo creduto non ci fossero più, e che invece ci sono. Certamente la sensazione dominante nel passato era che le “bestie feroci” fossero dei nemici, e non c’era il timore che si estinguessero. Di recente mi è capitato tra le mani il documento valdostano di una causa della fine del Duecento. Quando si ammazzava un orso, il Vescovo di Aosta aveva diritto ad una parte. Non erano più sicuri di quale parte dell’orso spettasse di diritto al Vescovo. Intervistarono un tizio, il quale aveva partecipato spesso a queste cacce. E lui disse: “sì in vita mia ho visto cacciare e uccidere nove orsi; di due volte mi ricordo che parte è stata data al Vescovo, per le altre volte non mi ricordo”. Ecco, era normale che uno, in vita sua, potesse partecipare nove volte a battute di caccia all’orso. Certamente non gli veniva in mente che l’orso rischiasse di estinguersi.

Per fortuna in seguito ci sono stati personaggi che hanno pensato di proteggere gli animali. Ci sono stati personaggi storici che nella loro attività politica abbiano pensato di proteggere la Natura? Pionieri del mondo “ambientalista” che abbiamo oggi?
Ad esempio i re inglesi del Medioevo, a partire da Guglielmo il conquistatore, Guglielmo di Normandia, che nel 1066 conquistò l’Inghilterra e impose un regime molto duro di sfruttamento di questo paese conquistato. A partire da quel momento nel Medioevo i re inglesi hanno difeso le foreste, ma nel senso che le hanno riservate a se stessi. Grandi estensioni di foresta sono state chiuse e recintate. Alla gente è stato vietato di andare a caccia nelle foreste. Ovviamente non volevano proteggere la Natura per il gusto di farlo, ma perché il re voleva riservare a sé la caccia e avere la piena padronanza dei branchi di cervi e cinghiali che vivevano in queste foreste. Non si trattava appunto di proteggerli, ma di una forma di tirannide di un sovrano che li voleva tutti per sé. Per altro, queste pratiche hanno lasciato nell’immaginario collettivo degli inglesi un’impronta molto forte: l’idea che se uno andava a caccia, e gli uomini del re lo prendevano, rischiava di essere impiccato. C’è anche una canzone di Fabrizio de André che lo racconta: “Geordie”, che cacciò sei cervi nel parco del re e che poi venne impiccato con una corda d’oro. Anche tutta la storia di Robin Hood e degli allegri compagni della foresta di Sherwood: che cosa vuol dire? Che se stavi nella foresta eri un fuorilegge. Quindi, per definizione, la foresta era un luogo dove c’erano i fuorilegge, perché le persone rispettose della legge non ci dovevano andare: la foresta è del re. Qui siamo molto lontani dalle preoccupazioni “ecologiche”, ma comunque non mancano, nel passato, interventi di protezione, chiusura, creazione di riserve e parchi. Non sono pero nati dal timore che le risorse si esaurissero; o meglio: non per l’idea che fosse un bene proteggerle in sé, ma perché il re voleva essere l’unico a sfruttarle.
In tempi più recenti ci sono i primi interventi contro la crudeltà sugli animali per esempio. Questa è una novità, perché effettivamente la crudeltà contro gli animali (parlo soprattutto degli animali domestici) è sempre stata normalissima della nostra civiltà. C’erano persone gentili che non apprezzavano queste cose, ma di per sé era normale che il carrettiere bastonasse i suoi cavalli, e che si facessero giochi come la corrida. A noi oggi sembra una cosa tipicamente spagnola, ma questi giochi in cui alla fine si uccideva il toro o l’orso erano comunissimi in tutta Europa; e in Inghilterra sono durati fino all’inizio dell’Ottocento. Poi è nata una sensibilità più diffusa che non apprezza i maltrattamenti agli animali. Una sensibilità molto positiva che per fortuna non ha fatto altro che allargarsi. Non voglio equivoci, però il principale politico che mi viene in mente e che avesse questa sensibilità era Hitler; sotto il cui regime credo che in Germania siano state fatte delle leggi per la protezione degli animali. Peccato che proteggere gli esseri umani non gli interessasse altrettanto.

L’altro grande fenomeno planetario attualmente in corso è la migrazione di popolazioni intere, di milioni di persone, dall’Asia e dall’Africa verso paesi più accoglienti e più ricchi. Questi, ormai ce lo dicono tutti gli studi, sono spinti sia da motivi economici e purtroppo bellici, sia da motivi ambientali: appunto i cambiamenti climatici che rovinano i raccolti, inondano le campagne e così via. Ci sono stati altri periodi della Storia caratterizzati dalle migrazioni. Se dovessimo imparare qualcosa dalla Storia, che cosa dovrebbero insegnarci le migrazioni dei secoli passati?
Senza dubbio nella storia europea e mediterranea ci sono state varie fasi di grandi spostamenti di popoli, anche molto antiche. Quella che conosco meglio è la più recente: le grandi invasioni barbariche che hanno messo fine all’Impero Romano d’occidente e hanno cambiato il popolamento dell’Europa occidentale. È interessante il fatto che noi, in italiano, le abbiamo sempre chiamate le “invasioni barbariche”. Anche i francesi le chiamano “invasioni”; cioè nei paesi di lingua neolatina in qualche modo ci identifichiamo con gli antichi romani e vediamo i popoli barbari come invasori. Gli storici tedeschi le hanno sempre chiamate “völkerwanderung”, cioè “migrazioni di popoli”. Chiaramente gli storici tedeschi si identificavano di più con questi franchi, vandali e longobardi che si spostavano verso il sole. È un luogo comune dire che cercassero condizioni di vita migliori anche dal punto di vista climatico, ma può darsi. Effettivamente sembra che quelli fossero secoli di peggioramento climatico, ribaltato rispetto ad oggi. Oggi sono il troppo caldo, la siccità, oppure le inondazioni a spingere i popoli dall’Africa verso nord. Invece nel IV, V, VI secolo d.C. furono i popoli che vivevano nel nord a muoversi verso il bacino del Mediterraneo, dove faceva più caldo e si stava meglio. Più tardi anche in Scandinavia successe la stessa cosa: i vichinghi furono anche loro spinti probabilmente da questi motivi.
Che cosa possiamo imparare? Fermo restando che la Storia non si ripete mai, e le condizioni sono molto diverse sempre, grosso modo anche le invasioni del tempo dell’Impero Romano possono essere descritte come movimenti di popoli che vivono al di fuori di un grande spazio civilizzato, ricco, e ben regolamentato, dove si vive con maggior sicurezza. Questi popoli invece vivono “al di fuori”, in condizioni di insicurezza e povertà, e quindi vogliono spostarsi verso i paesi ricchi, dove sperano o si illudono di essere accolti. Ecco, questo descrive sia quello che sta succedendo oggi, sia quello che è successo al tempo dell’Impero Romano. Al di là delle differenze, per chi dice: “queste migrazioni sono sempre rovinose, catastrofiche, bisogna difendersi e impedirle”, la risposta è che l’Impero Romano le ha assorbite per secoli con grande successo, prima che diventassero invasioni. Le ha assorbite perché sapeva usare questa forza lavoro efficacemente, perché sapeva dare delle regole ma anche delle garanzie e delle promesse: a quelli che si integravano dava la cittadinanza.
D’altra parte non bisogna neanche vedere la cosa in modo troppo roseo. A chi dice: “in realtà le migrazioni sono una risorsa e basta, non c’è motivo di preoccuparsi” io tenderei a dire che sì, sono senza alcun dubbio una risorsa; però non è vero che non ci sia motivo di preoccuparsi. Bisogna preoccuparsi nel senso che occorre affrontare il problema e saperlo gestire. Perché quando a Roma non sono più stati capaci di gestirli con regole chiare e garanzie, quei movimenti migratori sono diventati destabilizzanti. Non bisogna neanche cullarsi nel fatto, vero, che la Storia ci dice che l’immigrazione è stata in mille casi una grande risorsa: lo è stata per gli Stati Uniti, per tutta la loro storia; però ci sono anche casi in cui l’immigrazione “non gestita” si è rivelata destabilizzante. Questa mi sembra sia una lezione per la politica dei nostri tempi.

Si può riassumere che conoscere la Storia serva ad imparare dal passato per immaginare il futuro. Ora userò un verbo che lei sicuramente mi rimanderà indietro con un bollo di ignominia. È possibile “prevedere” come e se vinceremo la sfida del cambiamento climatico in base a quello che abbiamo fatto in passato?
“Prevedere” effettivamente è una parola grossa. In linea di massima prevedere il futuro è impossibile, perché la storia umana non è determinata da una volontà provvidenziale né da un destino prefissato. Non esiste il progresso, non esistono leggi dello sviluppo storico. Il caso ha un’importanza enorme nella Storia e, oltre al caso, ciò che accade comunque è prodotto dalla combinazione di così tanti fattori che veramente è del tutto impossibile “prevedere”. Si può prevedere “in negativo”, nel senso che, per esempio, si può dire che se si invade la Russia di solito poi ci sono dei guai. Allo stesso modo si può dire che se ci saranno migrazioni di massa, sicuramente creeranno tensioni e cambieranno il modo di vivere. È impossibile dire se lo cambieranno in modo disastroso o relativamente armonico, per cui [le migrazioni] saranno assorbite e la vita collettiva proseguirà con successo, anche se diversa; perché non sappiamo se la nostra società si sta davvero attrezzando per gestire bene questa sfida. Alcuni sintomi direbbero che la sta gestendo male; però un’altra cosa che la Storia insegna è che non si può giudicare sul breve periodo. Le invasioni barbariche sono un fenomeno che si è spalmato su più di due secoli. Nessuno nell’arco della sua vita le ha viste cominciare e poi finire. Allo stesso modo probabilmente nell’arco della nostra vita non saremo in grado di dire in che modo questo enorme movimento che caratterizza l’inizio del millennio sia destinato a cambiare la nostra epoca. Prevedere il futuro è impossibile e forse, tutto sommato, è anche meglio così.

Articoli collegati

Youth4Climate illumina il Colosseo e premia i progetti climatici dei giovani attivisti

Tiziana Tuccillo

Alessandro Polinori (LIPU): Un ambiente sano è un ambiente più resiliente

Giuliano Giulianini

Simone Tramonte vince il World Press Photo 2023 fotografando l’avanguardia della transizione ecologica

Giuliano Giulianini