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Cambiamento Climatico Ecosistema Interviste

Piantarle non basta, bisogna lavorare “insieme” alle foreste

Non sono solo ecosistemi da preservare e depositi di CO2, ma anche fonti di materie prime rinnovabili e più resilienti di cemento e acciaio. Giorgio Vacchiano promuove la climate smart forestry e l’economia del legno.

In questi giorni, in occasione del cambio di Governo, il comitato “Scienza al Voto” che riunisce alcuni tra i maggiori scienziati italiani nei campi dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, ha scritto una lettera aperta per chiedere un dialogo aperto e continuo tra politica e comunità scientifica sul modello di quanto succede in campo medico dall’inizio della crisi del COVID. Abbiamo intervistato uno degli scienziati firmatari della lettera: Giorgio Vacchiano, ordinario di Scienze forestali dell’Università di Milano La Statale, nonché autore de “La resilienza del bosco” (Mondadori), in cui racconta con passione e slancio quasi poetico, decine di storie di alberi e foreste. Vacchiano è uno dei maggiori esperti italiani di gestione delle foreste, e da anni promuove il concetto che alberi e boschi non solo vanno preservati in quanto ecosistemi o in funzione dell’assorbimento della CO2, ma possono essere anche fonte di materie prime rinnovabili ed ecologiche per una nuova economia a impatto sempre più ridotto sull’ambiente. Un esempio viene dalla bioedilizia, che sostituisce molte strutture di cemento con il legno, aumentando la durata e la resistenza degli edifici, ad esempio, ai terremoti. Non a caso la Strategia Europea per la Biodiversità prevede di piantare 3 miliardi di alberi in entro il 2030: quasi 7 alberi per ogni abitante dell’Unione Europea.

Versione integrale dell’intervista a Giorgio Vacchiano, docente di Scienze Forestali, andata in onda su Radio Vaticana Italia nel programma “Il Mondo alla Radio” del 25 febbraio 2021

Professor Vacchiano, qual è la situazione della copertura forestale del pianeta, e in Italia?

Giorgio Vacchiano, Università di Milano La Statale

Le foreste nel mondo stanno continuando a subire gli impatti negativi di un’azione scriteriata della nostra specie. Purtroppo la superficie coperta da boschi continua a ridursi a livello globale; soprattutto a causa della riduzione delle foreste tropicali, dove la deforestazione continua, anche se non se ne parla più molto. Due anni fa c’era stato uno scandalo per gli incendi appiccati dall’uomo in Amazzonia, che erano l’ultimo anello del processo di deforestazione, cioè di eliminazione permanente della foresta. Processo che purtroppo è stato ancora più intenso proprio durante l’anno del Covid. Durante il 2020 la deforestazione è stata superiore a quella dell’anno precedente, e il trend è in continuo aumento.

Ci sono alcuni luoghi del mondo dove, per fortuna, questo trend è invertito. L’Italia è uno di questi. Le foreste in Italia, così come in Europa, continuano ad aumentare a causa di un processo spontaneo di espansione dei terreni marginali abbandonati. Quello che si sta cercando di fare in Italia (o meglio quello che secondo me si dovrebbe cercare di fare) viene chiamata “intensificazione sostenibile”, cioè ottimizzare l’uso delle foreste per tutti i servizi che offrono: non sono la produzione di legno, che comunque resta importante, ma anche la protezione del suolo, l’assorbimento del carbonio atmosferico, e l’habitat per specie animali o vegetali.

L’ideale è usare bene le risorse che abbiamo, in modo da non dover dipendere, come purtroppo avviene ancora oggi, da legno o da boschi che invece dobbiamo lasciare intatti. Come quelli tropicali, che purtroppo invece ancora vengono eliminati; anche a causa dei nostri consumi: sia per il consumo di legno, sia soprattutto per il consumo di prodotti agricoli che contengono questa impronta di deforestazione “incorporata” al loro interno, di cui purtroppo non siamo ancora molto consapevoli, quando li acquistiamo e li consumiamo.

Il Governo italiano è appena cambiato; è cambiato il Ministro dell’ambiente, e anche il ministero. Ci sono state promesse di puntare sulle politiche della sostenibilità. In questi giorni è stata pubblicata una lettera aperta di un comitato di scienziati esperti del clima e dell’ambiente, tra cui anche lei, che in sostanza chiede un più stretto e permanente collegamento tra politici e scienziati che si occupano di cambiamenti climatici e ambiente. Mi sembra che si cerchi di andare nella direzione di ciò che si è fatto per il Covid: il Comitato Tecnico Scientifico, che sta dietro alle decisioni del Governo, influenza direttamente la nostra vita e la politica del nostro paese. È quello che si vuole ottenere anche in ambito climatico?

Questa lettera aperta, che ha come primo firmatario Antonello Pasini, uno dei migliori climatologi che abbiano, firmata da me e da molti altri colleghi, va in questa direzione. Una direzione verso cui sembra che il nuovo esecutivo si voglia muovere. Ovviamente aspettiamo la prova dei fatti.

Dobbiamo capire che il cambiamento climatico richiede un’azione in tutti i campi della società per essere affrontato e risolto; non può essere appannaggio solo di un singolo ministero: del Ministero dell’Ambiente e non di quello dell’economia. Tutti i settori della nostra società e del nostro sviluppo devono crescere in una direzione più compatibile con la buona conservazione del nostro clima. Allo stesso la crescita oggi deve essere compatibile con la conservazione della nostra salute. Quindi è interessante l’istituzione di questo ministero che dovrà affrontare una grossa sfida: come conciliare… come indirizzare più che conciliare, lo sviluppo industriale energetico del paese con l’obiettivo di zero emissioni nette a metà secolo. Perché ormai questo è l’obiettivo quantitativo, molto chiaro, che sappiamo essere di fronte a noi, per evitare gli effetti della crisi climatica più pericolosi.

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Effettivamente potrebbe essere utile un dialogo permanente, strutturato, tra la scienza e la politica. Le decisioni restano ovviamente appannaggio della politica, perché bisogna tenere in considerazione molti interessi, e sono le persone che si occupano di politica, i rappresentanti del popolo, dei vari interessi in gioco, a dover ricercare qual è il bene comune. Ma devono poterlo fare disponendo di informazioni accurate, aggiornate e anche di proiezioni. Faccio un esempio: quando la Commissione Europea introduce una nuova direttiva o una nuova legge, c’è un ufficio che si occupa di stimarne l’impatto ambientale e climatico; e la direttiva esce con un allegato che mostra ai policy makers e a tutti i cittadini europei, quali saranno le conseguenze previste sul clima, e quindi sulle persone, delle nuove cose che la direttiva propone. Sarebbe interessante se, anche in Italia, ogni nuova legge arrivasse con una valutazione del suo impatto sul clima. Non tanto per il clima in sé ma perché appunto dal clima dipende il nostro benessere. Quindi, secondo me, l’istituzione di un dialogo più permanente, proficuo e frequente tra la politica e la scienza è una direzione interessante verso cui dirigersi.

Qualche giorno fa un articolo a più mani pubblicato da Lifegate (su cui c’è anche la sua firma) riportava questa frase che mi ha colpito: “Puntare tutto sullo stoccaggio di carbonio nelle foreste per mitigare le emissioni CO2 e i cambiamenti climatici potrebbe essere la scelta sbagliata”. È una frase scioccante per chi pensa che più foreste ci sono, meglio è. Qual è il senso di questa frase? Che cosa ci può essere di “sbagliato”?

Il segreto sta in quel “tutto”. Puntare “tutto” solo sulle foreste, sul piantare alberi, è sicuramente insufficiente. Purtroppo i numeri ci dicono che, attualmente, le foreste possono assorbire, nel migliore dei casi, da un quarto a un terzo delle nostre emissioni extra di CO2 e di altri gas climalteranti. Se anche espandessimo nella massima misura possibile tutte le foreste, nei luoghi in cui è possibile farlo, non incideremmo ancora per la totalità della mitigazione che dobbiamo operare: cioè la compensazione delle emissioni. La nostra atmosfera è come una grande vasca da bagno, dove ormai l’acqua ha raggiunto quasi l’orlo. Il fatto che sia così piena d’acqua, in questo caso di CO2, esercita effetti negativi. Certo, dobbiamo riassorbire parte di questa CO2, quindi le piante con la fotosintesi possono darci una grossa mano, ma il concetto è che abbiamo ancora il rubinetto ben aperto: stiamo ancora continuando a emettere in atmosfera 150 milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni 24 ore. Questo è un rubinetto che va chiuso, indipendentemente da quello che faremo con le foreste, che certo sono un alleato importante, però dobbiamo partire dal ridurre le emissioni.

Quindi piantare alberi è una delle soluzioni per compensare quelle emissioni che non saremo riusciti a evitare. Ma prima di arrivare lì c’è molto lavoro da fare, anche più semplice e più economico: decarbonizzando il modo in cui produciamo energia, ci spostiamo, e facciamo viaggiare le nostre industrie. Piantare alberi non significa aver finito il lavoro. Per poter assorbire carbonio questi alberi devono crescere sani, quindi devono essere messi al riparo dagli effetti dannosi dei cambiamenti climatici: gli incendi, le ondate di siccità. Devono essere delle specie giuste e devono crescere nel luogo giusto per poter sopravvivere bene. Piantare alberi è un’arte e un lavoro. Per fortuna abbiamo molti dottori forestali in Italia che lo sanno fare, ma bisogna programmarlo con attenzione, sapendo il contributo che può e che non può dare.

Credo che questo sia il concetto di “climate smart forest”, in italiano “gestione forestale climaticamente intelligente”, che è anche oggetto di un progetto Life europeo: il CO2PEF&PES.

Esatto. È un progetto LIFE che abbiamo fatto partire da pochi mesi. Il capofila è la scuola Sant’Anna di Pisa, e ci sono l’Università di Milano e altre istituzioni ed enti che si occupano di gestione forestale. Spesso noi che abitiamo in città, io stesso, pensiamo agli alberi come qualcosa da piantare, ma esistono moltissime foreste che già esistono e si possono gestire in maniera, appunto, climaticamente intelligente. Per esempio cercando di metterle al riparo dagli incendi, dai danni da vento, o da insetti, che rischierebbero di compromettere la loro funzione di spugna di carbonio; oppure utilizzando il potere che ha legno di trattenere il carbonio, anche oltre la vita naturale dell’albero: cercando per esempio di impiegare quegli alberi per prodotti a lunga durata, anziché bruciando questo legno reimmettendo subito CO2 in atmosfera. Si possono poi realizzare materiali e strumenti per l’edilizia, dove possiamo addirittura sostituire materiali più clima-infestanti, come il cemento e l’acciaio.

Questo progetto [LIFE] si svolge in tre foreste italiane dimostrative, una in Friuli e due nell’appennino emiliano-romagnolo, e ha lo scopo di dimostrare come si possono gestire le foreste che già abbiamo per aumentare il loro stock di carbonio, cioè la quantità di carbonio che immagazzinano nel legno, che poi noi andiamo anche a utilizzare.

Fin qui abbiamo parlato di teoria. Però c’è un dato che vorrei ci portasse alla pratica della gestione forestale: secondo uno degli ultimi studi sulla situazione delle foreste italiane, soltanto il 19 delle foreste nazionali%, quindi meno di un quinto, è oggetto di pianificazione. Una percentuale ancora minore di foreste è oggetto di gestione. Ci può fare degli esempi positivi e negativi di come le foreste italiane vengono gestite in questo momento storico?

La pianificazione è il segreto di come gestire bene un bosco. Fare pianificazione vuol dire conoscere molto bene quali tipi di foreste esistono in un territorio; quali sono le minacce a cui sono esposte, soprattutto dal punto di vista della vulnerabilità climatica: quegli eventi estremi di cui parlavamo; quali sono i benefici che ci possono dare, e di conseguenza come lavorare insieme alla foresta, assecondando ovviamente i processi naturali (non si può fare diversamente) per mantenere questo flusso di regali, o “servizi” come vengono chiamati in gergo, che la foresta ci fa: dalla protezione del suolo all’assorbimento di carbonio, alla produzione sostenibile di legno.

Sicuramente una delle aree dove si stanno facendo buoni progressi nella gestione forestale è il Piemonte. È una delle regioni più boscate a livello di superficie assoluta: ha un milione di ettari di boschi. La Regione sta lavorando molto per cercare di sviluppare delle filiere virtuose. Ad esempio c’è un progetto sul legno di castagno: per recuperare tutti quei boschi di castagno che non sono stati più gestiti da molto tempo; abbandonati perché non più convenienti dal punto di vista economico, almeno per i loro usi tradizionali. Si cerca di recuperare una gestione, che significa conservare il bosco; quindi prelevare quel poco di legno che è compatibile con il ritmo a cui questo ricresce e si riforma, mantenendo la rinnovabilità della risorsa, e potenziando il sistema locale di lavorazione di questo legno: le segherie e le piccole industrie di prima lavorazione per realizzare prodotti in castagno anziché importarli dall’estero dove [il prelievo di] questo legno rischia di essersi macchiato di grossi problemi di sostenibilità. Ad esempio il castagno è particolarmente adeguato per travi ad uso edilizio. Questo ha anche una ricaduta occupazionale: si generano posti di lavoro; si cerca di aumentare la specializzazione, la formazione delle persone che lavorano nel bosco, degli operai forestali, che in Italia rappresentano ancora un lavoro troppo poco qualificato rispetto all’importanza che riveste per il nostro clima e per il nostro ambiente. Si cerca anche di mantenere una certa presenza sui territori, che altrimenti rischiano di spopolarsi o restano spopolati, sempre più preda magari di speculazioni poco avvedute.

Gli alberi però non esistono solo in natura, nelle foreste appenniniche o alpine ma anche, e speriamo sempre di più, nelle città. Ci può parlare di qualche buon progetto, e di riflesso di qualche mancanza di progetto, di forestazione urbana? A Roma in questi giorni, ma già da anni, fanno molto discutere i tagli drastici dei pini secolari che punteggiano il panorama della capitale. In effetti è un problema di come viene gestito il verde di Roma, o è normale un ricambio in questa situazione?

Il taglio dei pini di Roma, e in generale la gestione del verde in quel comune, ha tre problemi di base che però non nascono oggi. Il primo è che questi pini sono stati messi a dimora circa un secolo fa, tra ottanta e centoventi anni fa, in un momento in cui nessuno poteva immaginare lo sviluppo che avrebbe avuto la vita e la superficie urbana a distanza di un secolo nel futuro. Quindi, sebbene in questi cento anni i pini siano diventati prepotentemente parte del paesaggio romano e del nostro immaginario, in realtà potrebbero non essere la specie adatta a viali asfaltati dove purtroppo devono passare molti mezzi e automobili, e dove vengono stressati da continui lavori ed opere di urbanizzazione. Se oggi dovessimo piantare degli alberi, come dobbiamo, sarebbe opportuno scegliere delle specie diverse, più resistenti o più compatibili con gli stress che esistono in città.

Il secondo problema è nuovo: un parassita, la toumeyella parvicornis (Cocciniglia tartaruga del pino, nda.) un insetto esotico arrivato da pochi anni in Italia, che ama nutrirsi proprio delle gemme del pino domestico, il pino a ombrello che tutti conosciamo. Ha fatto strage di pini a Napoli, nella zona di Posillipo, e si sta espandendo a Roma. Non ha predatori naturali, non ha delimitatori, venendo dall’estero. Al momento l’unico rimedio per evitare che gli alberi attaccati muoiano e diventino pericolosi per le persone, purtroppo è abbatterli. Così ci dicono i colleghi che stanno studiando questo insetto e che ancora non hanno trovato un altro rimedio, un’altra cura.

Il terzo aspetto è probabilmente un sotto investimento nella risorsa. Molte città in Italia considerano la manutenzione del verde ancora come un costo, e mai come un beneficio; perché tutti i benefici che gli alberi possono dare in città di fatto sono gratis: il rinfrescamento, l’assorbimento delle piogge, l’assorbimento degli inquinanti per la qualità dell’aria. Sembra che se non entrano soldi nelle casse del comune, non generando ancora un valore monetario, si vede solo la parte del costo. Per una città grande come Roma ci vorrebbe senz’altro un investimento maggiore in formazione, in persone che si curano del verde, e in un nuovo piano di sostituzione: abbattere un albero, se diventa pericoloso, può essere l’unica opzione; l’importante è che questo venga sostituito con uno, magari due o tre nuovi alberi della specie più adeguata, resistente alle avversità e alla siccità che sperimenteremo.

Da questo punto di vista altre città che invece stanno lavorando bene sono quelle insignite del riconoscimento della FAO Tree Cities of the World. In Italia abbiamo tre città che già hanno ricevuto questo premio: Torino, Milano e Mantova. Diverse città sono state appena candidate: tra queste anche Cesena e Modena. Il premio viene riconosciuto perché ci sono le risorse adeguate; un piano di forestazione urbana; un ufficio che se ne occupa, con persone formate che fanno dei progetti; e una conoscenza precisa della risorsa: un catasto del verde che viene aggiornato. L’obiettivo è di mantenere tutti i servizi che questi alberi producono, magari anche trasformandoli in un valore economico, perché no?

Fra qualche giorno, il 28 febbraio si assegnerà un premio europeo dell’albero dell’anno 2021. Come se fosse un concorso cinematografico c’è in gioco anche un albero italiano: il Platano di Curinga. Lo conosce?

Lo conosco per aver letto alcune descrizioni, ma non ci sono mai stato. È in provincia di Catanzaro, vicino al Mar Tirreno: una delle poche aree in Italia dove crescono spontaneamente i platani che spesso troviamo nei viali delle nostre città del nord e del centro, magari piantati all’epoca Napoleonica, come nella mia città, Torino. Al sud invece i platani crescono naturalmente nel bosco.

Questo è un platano molto vecchio. Secondo alcuni potrebbe addirittura avere mille anni, anche se in realtà è impossibile determinarne l’età perché è completamente cavo all’interno, come si addice agli alberi particolarmente vecchi. Una cosa che spesso non si conosce è che il tessuto che mantiene l’albero in vita e quello subito sotto la corteccia. Tutto il tessuto all’interno serve solo come sostegno, ma di fatto sono cellule morte. Per questo spesso troviamo degli alberi completamente cavi che però sono ancora perfettamente vitali e riescono a trasmettere la linfa. Questo è uno degli alberi monumentali d’Italia, iscritto nel registro del MIPAAF che tutti possono consultare sul sito. Si pensa che sia stato piantato dai monaci di San Basilio quando arrivarono in Calabria. Quindi ha anche un interesse culturale-storico, oltre ad essere un albero meraviglioso: perfettamente vitale, nonostante la sua età, e con una chioma enorme. Per cui vale davvero la pena che sia candidato per rappresentare l’Italia alla competizione per l’albero europeo dell’anno: una gara che si tiene ogni anno, per sensibilizzare le persone sugli alberi. Se riuscite, date il vostro voto a quest’albero su internet per promuoverlo e, intanto, per conoscerlo meglio.

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