Da Federconsumatori Lazio e Forum del Terzo settore la proposta di un progetto per rendere quartieri e piccoli comuni produttori e consumatori di energia da rinnovabili. Fondi e normative sono disponibili, manca il tramite tra le infrastrutture nazionali e cittadini, comunità e imprese.
Secondo le stime il 60% delle emissioni di gas serra che riscaldano il pianeta è dovuto alla produzione di energia. Ovviamente questo effetto collaterale si ha quando l’energia è tratta da fonti non pulite, come il petrolio, il carbone e i gas naturali, il cui sfruttamento implica produzione e immissione in atmosfera di anidride carbonica e altri gas climalteranti. Attualmente l’81% dell’energia prodotta nel mondo proviene da fonti fossili. Nonostante questo, uno degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU vorrebbe che entro il 2030 tutte le persone sul pianeta avessero garantito l’accesso a servizi energetici affidabili, sicuri e a buon mercato. Attualmente questa condizione manca a quasi 800 milioni di persone. Come risolvere il problema di portare energia a più persone diminuendo al contempo l’impatto sull’ambiente? La soluzione sta nell’aumentare la quota globale di energia prodotta da fonti non inquinanti e rinnovabili: il solare, l’eolico, il geotermico e l’idroelettrico. Finora puntare sulle rinnovabili ha significato programmare grandi opere come dighe, campi eolici e fotovoltaici, e costruire grandi centrali che implicano politiche di grande respiro e ingenti investimenti; ma ci sono anche alternative più “a portata di mano”, che possono risolvere parte del problema partendo dal basso: le comunità energetiche.
L’argomento è stato al centro di un recente convegno dal titolo “Energia in Comune”, organizzato dalla Camera di Commercio di Roma con Federconsumatori Lazio e Forum Terzo Settore, a cui hanno partecipato anche assessori regionali, rappresentanti sindacali e associazioni tra cui Earth day Italia. Potrebbe stupire la circostanza che un convegno che cerca soluzioni per l’energia (una materia di competenza nazionale, oltre che un problema globale) coinvolga enti locali ed esponenti del terzo settore; ma bisogna considerare che i primi soggetti a soffrire le crisi e la “povertà energetica”, tanto nei paesi ricchi quanto in quelli in via di sviluppo, sono le popolazioni delle aree più depresse. In Italia, ad esempio, la crisi occupazionale causata dal Covid ha portato molte persone a non poter pagare le utenze energetiche; mentre, se porgiamo lo sguardo ai paesi poveri, l’ONU ha stimato che in alcuni di questi una struttura sanitaria su quattro lavora senza elettricità. Risulta perciò evidente che, tanto per una famiglia in crisi in un paese del G20, tanto per quelle di un villaggio remoto in un’area depressa del pianeta, l’autosufficienza energetica può far partire un circolo virtuoso di lavoro, benessere e possibilità.
In questo convegno Federconsumatori Lazio ha presentato un modello di comunità energetica locale che punta ad autoprodurre energia pulita da rinnovabili, ad esempio sui tetti delle scuole o delle singole case, e a fornirla con grande risparmio non solo ai cittadini e alle istituzioni di quel territorio, ma anche alle piccole imprese. Il tutto senza pesare sull’ambiente e sfruttando, nel nostro paese, i fondi europei per la ripresa dalla pandemia. È interessante sottolineare che chi partecipa alla comunità energetica non solo risparmia sulle bollette, o addirittura va in credito cedendo energia alla rete locale e nazionale, ma crea un volano per tutta la comunità locale. Le imprese locali vedono diminuire, se non azzerare, i costi energetici delle loro attività. Dalla moltiplicazione dei piccoli impianti si crea lavoro per installatori, manutentori, ingegneri, operai e impiegati amministrativi, tanto più vicini al territorio quanto più circoscritta o lontana dai grandi centri è la comunità energetica. Queste associazioni si possono poi costituire in soggetti giuridici che possono accordarsi per reinvestire nelle comunità stesse il surplus di energia generato, ad esempio in nuovi servizi pubblici o nel miglioramento di quelli esistenti. Gli eventuali utili da crediti energetici possono essere spesi nelle scuole o nelle strutture sanitarie locali, o negli arredi urbani di un Comune che partecipi all’impresa. In Italia esistono già 32 comunità di autoconsumo collettivo, e 41 comuni sono già autosufficienti al 100%. L’obiettivo è estendere queste buone pratiche al resto del paese e fare in modo che l’energia prodotta sia al 100% sostenibile per l’ambiente.
Ne abbiamo parlato con Stefano Monticelli, Presidente di Federconsumatori Lazio. Di seguito la versione integrale dell’intervista rilasciata a “Ecosistema”, la rubrica radiofonica di Earth Day Italia, trasmessa nel programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia.
Presidente, cominciamo con una definizione semplice di comunità energetica.
In realtà ancora non esiste né una definizione semplice, né una definizione vera e propria in quanto le comunità energetiche discendono da una normativa europea che il nostro paese ha recepito a settembre dello scorso anno, e che deve perfezionare con una legge entro il giugno di quest’anno. In ogni caso esistono già delle comunità energetiche: sono un insieme di soggetti che hanno lo stesso intento di autoprodurre energia elettrica. A questo concetto, che in realtà esiste da tanto tempo, si aggiunge la vera novità di questa transizione: un cittadino o una comunità possono autoprodurre e rivendere l’energia elettrica. Infatti si è coniugato un nuovo termine per definire questo nuovo consumatore: prosumer, cioè colui che consuma e produce energia elettrica.
Un’immagine che mi è piaciuta e che ho sentito nel convegno è quella di “centrale virtuale”: come se in una comunità ci fosse una centrale energetica, che però non è un edificio ma la somma di tante singole produzioni. È così?
Proprio Così. Abbiamo costruito un progetto, “Comunè”; questo titolo ha anche un sottotitolo: “l’energia comune dei comuni italiani”. Sostanzialmente “Comunè” è contemporaneamente un soggetto di consumo e di produzione di energia elettrica che viene messa in comune, partendo proprio dai comuni italiani. Questo soggetto non fa altro che mettere insieme persone che devono consumare energia elettrica e persone che la producono. Quindi “Comunè”, a tutti gli effetti, è anche un produttore di energia elettrica… e rinnovabile, perché questo è il cuore il centro e l’obiettivo del progetto.
Che ruolo possono avere in una comunità energetica soggetti diversi come una famiglia, un condominio, una scuola, una piccola impresa manifatturiera o una piccola industria?
Il primo passaggio è fare autoproduzione. Si può fare con il pannello solare o con la pala eolica, ma in quest’ultimo caso siamo in una dimensione e in un ambito completamente diversi. La famiglia, l’impresa o il soggetto pubblico, con un pannello solare per la cui installazione tra l’altro sono previsti incentivi e bonus, possono produrre per sé stessi l’energia elettrica e, qualora questa energia non fosse sufficiente o addirittura fosse in surplus, possono [prenderla o] reimmetterla all’interno di un circuito. Così facendo si agisce esattamente nello spirito dell’Agenda 2030 dell’Unione Europea: cioè avviare un percorso di transizione energetica con il passaggio dalle fonti inquinanti, come il carbone, alle fonti completamente rinnovabili come il sole.
Un altro discorso emerso dal convegno è che non bastano una politica nazionale ed europea favorevoli; i fondi che ci sono, dal Recovery Fund e da altri fondi di investimento e incentivi che si sono sommati negli anni; la buona disposizione dei cittadini, perché siamo tutti d’accordo che vorremmo produrre energia pulita; ma occorre anche un coordinamento intermedio per mettere insieme la piccola rete (il condominio, la scuola, il quartiere) con la rete nazionale. Questo è il ruolo dei “coordinatori”, che non sono i ministeri o i grandi gestori nazionali dell’energia. Chi sono, o chi possono essere queste figure?
Lei ha centrato esattamente il percorso. Nel senso che i grandi gestori ci sono già. C’è il grande fornitore di energia elettrica; ci sono i cittadini che consumano; ci sono le istituzioni che normano. Al centro manca appunto la comunità energetica. “Comunè”, il nostro progetto, fa esattamente quello che lei descrive, cioè si mette al centro di un sistema che deve necessariamente essere ricostruito. Perché oggi il sistema è costruito sulla base dell’esistente: si brucia carbone e si fornisce l’energia elettrica separatamente ai singoli cittadini; e poi c’è il consumo o addirittura la povertà energetica. La pandemia ha gettato intere famiglie nella povertà energetica. Ci sono interi condomini di Roma dove le persone non riescono nemmeno più ad accendere la luce. Chi si mette in mezzo in questo sistema è appunto “Comunè”. Il nostro intento (ma in generale quello di una comunità energetica) è fare da tramite tra i grandi gestori e i cittadini, portando due vantaggi: il sistema opererà la transizione; e la comunità vedrà reinvestito al suo interno tutto il risparmio che si potrà realizzare. Quindi si opera una transizione energetica ma anche sociale. Nella ricerca pubblicata sul nostro sito www.federconsumatori.lazio.it, modestamente ho scritto una premessa citando una frase di papa Francesco: “L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune e cercare un altro modo di intendere il progresso”. Molto più modestamente di questa grande intuizione noi abbiamo fatto una cosa semplice: costruire un soggetto che non inquini più, cerchi di ridistribuire le risorse, e sia in grado di reinvestire i benefici nella comunità per dare alle sue famiglie anche dei vantaggi di carattere sociale. Così abbiamo interpretato questo richiamo.
Quale sarebbe la dimensione ideale di una singola comunità energetica, anche dal punto di vista pratico considerando la velocità di realizzazione? Il quartiere, il piccolo comune, la città o la metropoli?
Questo è un punto affatto semplice da affrontare. Perché la nostra rete [energetica nazionale] è costruita per fare quello che fa adesso, non per una comunità energetica. Oltre agli aspetti normativi ci sono da considerare anche quelli tecnici. In ogni caso la dimensione su cui si sta lavorando in questo momento è quella di una comunità localizzata, che può essere più o meno estesa. Noi abbiamo partecipato con la Regione Lazio anche ad un progetto di risanamento urbano delle periferie di Roma a Coviale. Corviale è un “grande paese” perché lì ci sono oltre 4.000 abitanti. Anche quella è una dimensione possibile. Certamente, prima arrivare all’intera città di Roma il salto è grande. Non sarà mai possibile fare una sola comunità energetica per tutta Roma, ma bisognerà comunque pensarla come comunità. Questo è un limite ma è anche un grande vantaggio; perché i cambiamenti si possono fare se sono visibili. Quando ci si interessa alla comunità, all’insieme delle famiglie, questi vantaggi sono molto visibili e quindi sono possibili.
Dal convegno sono emerse anche le immancabili differenze regionali o macroregionali: nord, sud, centro. Qual è al momento la geografia italiana delle comunità energetiche? Si è già iniziato da qualche parte? Quali sono i fattori che accelerano o frenano le comunità locali regionali verso questo futuro?
C’è un paese diviso. L’Italia è un po’ indietro. Nel resto d’Europa sono molto più avanti con le comunità energetiche in generale. Con queste “rinnovabili”, cioè quelle previste dalle direttive europee, siamo indietro un po’ tutti perché sono molto recenti. In Italia il centro è quasi completamente privo di comunità energetiche. Ce ne sono alcune nel nord, in Lombardia e Piemonte: una molto famosa si sta costituendo in questo momento a Magliano Alpi in Piemonte. Poi ce ne sono alcune del Sud, in Puglia e in Sicilia; queste sono avvantaggiate dal sole o dal vento. Il panorama però è piuttosto scarso. Le comunità esistenti hanno una funzione diversa da queste “rinnovabili” di ultima generazione, nelle quali il principio è fare il bene di chi partecipa ma anche alla comunità stessa. In passato si costituivano comunità energetiche sostanzialmente per risparmiare, o per avere un certo tipo di energia. Oggi lo spirito è di reinvestire quello che si risparmia, o il valore che si crea, nella comunità locale stessa. Questa è la vera differenza.
Chi fa partire questa macchina in concreto? I sindaci, i governatori, il governo nazionale o anche il cittadino che si mette un pannello sul tetto? Farebbe bene a farlo adesso, o sarebbe in anticipo e dovrebbe aspettare che cambi qualcosa?
Nella nostra ambizione chi farà partire questa macchina è il nostro progetto, o progetti come il nostro. È un’ambizione fondata perché una comunità energetica non può partire da una singola persona. Deve partire da qualcuno che la coordina, ma soprattutto da un insieme di incentivi, di bonus e da un vantaggio. Se non ci sono dei vantaggi è difficile fare le cose. In questo frangente ci sono tutte le condizioni: la normativa c’è; le leggi si stanno facendo; i fondi ci sono: sono quelli del Recovery Fund. Questi soldi si trasformeranno in progetti, e i progetti lentamente porteranno ad una transizione. “Lentamente” è relativo, perché tutto andrebbe fatto entro il 2026 (anno di “scadenza” del Recovery Fund, nda.). Quindi le condizioni ci sono; manca il catalizzatore, che sono appunto l’insieme di questi progetti. “Comunè” è uno di questi: sostanzialmente noi cominciamo a costruire questa comunità energetica intorno ad un’istituzione. Lo possiamo fare partendo dal basso perché siamo un’associazione di consumatori, in cui l’energia è il core business ma sostanzialmente siamo senza scopo di lucro. Quindi con questa operazione non abbiamo l’obiettivo del guadagno, ma quello della transizione energetica e di combattere la povertà energetica.
Quanto dovremo aspettare e lavorare per vedere questo futuro?
Poco, credo. Il Piano di Resilienza del nostro Governo (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nda.) e i fondi del Recovery Fund devono essere spesi entro il 2026. L’agenda Europea fissa un limite al 2030, quindi penso che sarà obbligatorio fare questa transizione nei prossimi anni. Ma penso che sarà obbligatorio anche perché oggi, per la prima volta, siamo nella condizione di pensare che questo nostro pianeta non ce la faccia più ad andare avanti così. Non è soltanto meno giusto, più inquinato, meno distributivo: non ce la fa più a livello di risorse naturali ed energetiche. ENEA sostiene che se i gradi (il riscaldamento medio globale, nda.) aumentano di 2 (e siamo già a 1,2) entro questo secolo saremo al punto di non ritorno. E questo secolo in fondo sono tre generazioni. Penso che l’umanità per la prima volta sia di fronte alla presa d’atto che questo pianeta sia nella condizione di non farcela. Non è più soltanto un modo di dire: le persone cominciano a toccarlo con mano. Quindi credo che questa sia una grande opportunità. Ci sono dei fondi: non tanti ma ci sono; ci sono le condizioni, c’è la normativa. Penso che una delle grandi sfide per la politica del futuro sia fare la transizione ecologica per il nostro pianeta.