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Società

L’Italia si consuma

Il consumo di suolo naturale non si arresta, ma al contrario accelera, secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’ISPRA. Una superficie del paese vasta quanto l’Emilia Romagna è ormai irrimediabilmente cementificata. Le città che “mangiano” più suolo: Roma, Ravenna e Vicenza; tra le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Nonostante la sensibilità ai temi dell’ambiente, della tutela del territorio e del patrimonio naturale, l’Italia continua a consumare il suo suolo fertile al ritmo, nell’ultimo anno, di oltre 19 ettari al giorno. Lo conferma il nono e più recente “Rapporto su consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” pubblicato dall’ISPRA. Per dare un’idea, un ettaro è la dimensione approssimativa di un campo di calcio; ma la dimensione del fenomeno si intuisce forse meglio considerando che la velocità con cui il nostro paese cementifica il terreno è di 2,2 chilometri quadrati al secondo, e che nel 2021 il territorio irrimediabilmente sacrificato a strade, edifici, impianti e coperture artificiali varie è stato di circa 69 chilometri quadrati: paragonabili a città come Cremona e Pavia, a un’isola come Lipari, o all’intero stato di San Marino.

Queste nuove coperture artificiali si vanno ad aggiungere alle opere del passato, e così il “suolo consumato” ha superato ormai il 7% del totale disponibile: una superficie grande come l’Emilia Romagna, che corrisponde a 363 metri quadrati per ogni abitante. Anche questo dato è in aumento: ognuno di noi ha virtualmente meno verde e più cemento intorno. Infatti, nonostante la popolazione italiana non aumenti da anni, ma anzi inizi a diminuire, e nonostante la maggiore sensibilità ambientale della società in generale, il consumo di suolo nazionale non solo non si arresta, ma aumenta di velocità rispetto agli anni precedenti. Occorre specificare che la percentuale del 7% è in qualche modo una sottostima. Infatti escludendo i territori non adatti a realizzare impianti, coperture ed edifici (montagne e terreni di grande pendenza, gole e dirupi, laghi, fiumi e altri specchi d’acqua) la percentuale del cosiddetto “suolo utile” già perduta arriva la 10%: un’estensione pari a Lazio e Campania messe insieme.

C’è anche una percentuale di territorio che viene rinaturalizzato. Ad esempio le aree di cantiere dismesse e ripristinate a verde. Ma si tratta di una frazione: poco meno di 6 chilometri quadrati, nell’ultimo anno. Il suolo ripristinato non è mai comunque paragonabile a quello naturale, dal punto di vista ecosistemico: basti pensare che lo strato fertile che ricopre il suolo, relativamente sottile e quantificabile da pochi centimetri a un paio di metri, si forma con il passare dei secoli grazie all’accumulo di sostanze organiche, vegetali e animali che lentamente costituiscono il cosiddetto humus; un misto di sostanze in decomposizione, esseri viventi e inerti che non è lo stesso ovunque: è la “memoria” storica della biodiversità del territorio, dei suoi animali, delle sue piante, dei suoi componenti minerali e del clima locale. Non basta dunque ricoprire di generica “terra” una cava o una miniera per riportare la natura al suo stato originario. Oltre al “suolo consumato”, dunque, il rapporto dell’ISPRA indica anche il “suolo reversibile”, ma questa reversibilità, oltre a non essere paragonabile, come detto, all’opera della Natura, non è neanche gratuita: ripristinare un suolo fertile costa caro. Tra l’altro un suolo “reversibile”, ad esempio una cava dismessa, non lo rimane per sempre, essendo soggetto ad erosione, intemperie ed altri fattori ambientali che lo rendono sempre meno recuperabile e, soprattutto, essendo sempre soggetto a nuove, possibili, cementificazioni. Nell’ultimo anno circa 12 chilometri quadrati di territorio sono passati dallo status di “consumato reversibile” a quello di “consumato permanente”. Quindi il suolo definitivamente perso è il doppio di quello recuperato al verde.

Occorre anche sottolineare che la superficie che perdiamo ogni giorno non è equamente distribuita su tutto il territorio nazionale. I suoli più ambiti dai cementificatori sono ovviamente quelli più vicini o addirittura interni alle città: i più pianeggianti e (in un paese come il nostro) i più fertili e ricchi di biodiversità. Questo accade perché i motivi principali per cantierizzare un suolo agricolo o naturale sono: lottizzazioni edilizie, impianti industriali, aree logistiche, centri commerciali, direttrici e svincoli stradali. Tutte “opere” che ovviamente occorre, o conviene, che siano prossime ai centri abitati. Le regioni che più soffrono questo fenomeno di consumo del suolo urbano e periurbano sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte; e le tipologie di terreno più interessate dall’accelerazione del consumo sono la pianura, la costa e i centri urbani. Le province che hanno perso più verde sono Brescia (oltre 300 ettari) Roma e Napoli (oltre 200 ettari). A fomentare questa “fame” di terra ci sono quindi anche i fattori economici: nello specifico il valore immobiliare dei terreni ex agricoli o naturali, che ovviamente aumenta sui litorali, e in prossimità dei centri cittadini o nelle prime periferie. Roma è la città che sacrifica più verde alla sua “crescita”: 95 ettari di terreno naturale o seminaturale cancellati da aree di cantiere, nuove edificazioni, cave, parcheggi e piazzali. Seguono quest’anno Ravenna e Vicenza. Le città che invece presentano più suolo consumato in assoluto rispetto alla loro estensione sono Torino (65%), Napoli (63%), Milano (58%) e Pescara (51%).

Questa tendenza contraddice, tra le altre cose, l’ormai diffusa sensibilità a problemi tipici delle città, come l’inquinamento o l’aumento delle temperature dovuto alla concentrazione di superfici cementificate. A parole auspichiamo più alberi, prati, coltivazioni e parchi per mitigare la calura e “pulire” l’aria; ma nei fatti continuiamo a costruire abitazioni, strade e centri commerciali su terreni naturali. Il rapporto monetizza questa perdita dei “servizi ecosistemici” in 120 miliardi di euro, che il nostro paese ha dovuto spendere negli ultimi 15 anni per rimediare ai danni sanitari, sociali, economici e strutturali che si sarebbero potuti evitare non impermeabilizzando e snaturando il suolo. Una “tassa” da 8 miliardi annui che imponiamo a noi stessi.

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