Ecosistema Interviste Vivere green

L’Italia ciclabile è al bivio. La metà di chi va in auto in città potrebbe andare in bici.

Alberto Fiorillo, ideatore del Grande Raccordo Anulare delle Bici e tra i massimi esperti di ciclo mobilità analizza il momento di crescita della ciclabilità italiana.

Il 3 giugno è stata la Giornata Mondiale della Bicicletta. L’ONU ha istituito questa ricorrenza nel 2018 per promuovere i mezzi a pedali, principalmente per motivi di salute. Pedalare infatti contribuisce a mantenere il corpo tonico e attivo, e rappresenta una buona prevenzione per le malattie cardiache, il diabete e alcuni tumori. Da non sottovalutare poi il benefico impatto ambientale delle biciclette sulla qualità dell’aria nelle città, dove ormai si concentra il 55% della popolazione mondiale.

Il segretario generale dell’ONU Guterrez per l’occasione ha dichiarato: “Le biciclette sono sinonimo di libertà e divertimento; benefiche per la nostra salute fisica e mentale, e per quella del nostro solo ed unico pianeta”.

Nel mondo si stima ci siano un miliardo di biciclette: curiosamente più o meno lo stesso numero di auto private. Vale la pena ricordare anche quanto successo durante il lockdown generale dell’anno scorso, quando il blocco dei trasporti pubblici e privati nelle città di tutto il mondo ha spinto molti a muoversi in bicicletta quando consentito. Secondo i dati dell’ONU città come Barcellona, Milano, Londra e Parigi hanno registrato diminuzioni intorno al 60% dell’inquinamento dell’aria. La crescita della mobilità a zero emissioni è un argomento di cruciale importanza, perché quasi un quarto delle emissioni di gas che alterano il clima provengono dal settore dei trasporti. Infatti ad ottobre si terrà la seconda conferenza dell’ONU per i trasporti sostenibili. La conferenza sarà ospitata a Pechino, una città che nel nostro immaginario è caratterizzata da sempre dalle biciclette, ma che purtroppo figura anche al 241° posto tra le città più inquinate al mondo secondo un rapporto di Greenpeace precedente alla pandemia.

Questo sembra un periodo d’oro per la ciclabilità in Italia. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del Governo ci sono 600 milioni destinati a realizzare, entro il 2026, 1.800 km di nuove piste ciclabili: 570 km nelle città e ben 1.250 km di ciclabili turistiche: più o meno quanto la lunghezza dello stivale. Oltre a questo, il Kyoto Club e il CNR nel rapporto Mobilitaria 2021, hanno stimato che utilizzando anche altri fondi già approvati e in base a progetti già a buon punto, le piste urbane potranno aumentare di 5.000km, e quelle turistiche o extraurbane di altri 10.000km. L’anno scorso sono stati creati 200 km di nuove ciclabili nel paese. Le vendite di biciclette sono aumentate del 14% e quelle elettriche del 44%, grazie anche agli incentivi statali. Un’altra buona notizia è che nel prossimo triennio saranno stanziati altri 180 milioni di incentivi alla rottamazione di veicoli inquinanti, per l’acquisto di mezzi a emissioni zero.

Insomma sembra che ci sia un “rinascimento” italiano della bicicletta, soprattutto nelle città ma, come ben sappiamo la costruzione delle piste ciclabili e la convivenza tra ciclisti, pedoni e automobilisti non è sempre facile.

Di questi argomenti abbiamo parlato con Alberto Fiorillo, tra i massimi esperti italiani di mobilità sostenibile, ideatore e promotore del GRAB, Grande Raccordo Anulare delle Bici, che sta per vedere la luce a Roma.

La mobilità sostenibile è un pilastro della transizione ecologica e della lotta al cambiamento climatico. In Italia sembra la ciclabilità sia un po’ più avanti rispetto al settore delle auto elettriche o a quello dei trasporti pesanti a zero emissioni, che dovrebbero arrivare ma ancora non si vedono. Come si inquadra nel panorama mondiale il fenomeno della ciclabilità italiana?

Alberto Fiorillo

Sicuramente quello della ciclo-mobilità è un settore più maturo, che può essere valorizzato e creare delle occasioni di shift modale, cioè di cambiamento degli stili di mobilità, soprattutto all’interno dei centri urbani, con interventi infrastrutturali tutto sommato non particolarmente costosi e realizzabili in breve. Soprattutto, rispetto alla mobilità elettrica, la ciclo-mobilità ha un vantaggio competitivo ulteriore: se avessimo un totale shift con la mobilità elettrica (auto, bus, trasporti pesanti, ecc., nda.) sostanzialmente ci ritroveremmo comunque in una situazione di congestione, di consumo di suolo, di perdita di spazio, di insicurezza stradale, analoga a quella contemporanea. Mentre con la realizzazione di piani strategici per la mobilità ciclistica e pedonale, potremmo ottenere il risultato di modificare l’uso dello spazio urbano (uno dei punti centrali di tutte le strategie urbane che le città europee e internazionali stanno adottando), potremmo avere anche un’attrattività e una qualità dei territori, e puntare nuovamente sulla socialità dello spazio urbano, sottraendolo alle auto, almeno parzialmente, e restituendolo alle persone.

Pochi giorni fa è stata la Giornata Mondiale della Bicicletta. In quali paesi si è più avanti? Paesi in via di sviluppo come India e Cina hanno un grosso peso sull’inquinamento atmosferico dovuto ai mezzi di trasporto privati, anche a causa del numero di abitanti; com’è la situazione là? E come si colloca l’Italia in questo scenario?

L’Italia è a un bivio. Nella ciclabilità, una serie di nazioni europee sono tradizionalmente più avanti. Cito le solite note: la Danimarca e l’Olanda. Però a questi paesi se ne stanno affiancando altri, sempre nel contesto europeo. Penso agli interventi recenti fatti in Francia, in particolar modo in tutta l’area metropolitana di Parigi; oppure a quello che è successo a Madrid e a Barcellona, dove c’è un impianto amministrativo che porta a una modifica degli spazi che quindi si rendono immediatamente disponibile ai pedoni e alle biciclette. Penso anche a quello che sta succedendo in tante metropoli degli Stati Uniti, complice anche la pandemia, purtroppo, che ha modificato gli stili di vita di tutti, ed ha modificato anche le abitudini di mobilità: da una parte creato i presupposti per l’aumento dell’uso dell’auto privata, dall’altra parte per la crescita di una forte domanda di mobilità sostenibile e attiva, e quindi di spazi per la bicicletta. Poi ci sono paesi come Cina e India che in passato hanno avuto forti quote di spostamenti in bicicletta (più per necessità che per scelta), e affacciandosi al periodo della motorizzazione di massa hanno invece stravolto le loro città. Bisogna però dire che in Cina c’è una rapida inversione di tendenza, proprio legata a motivi di inquinamento e congestione delle grandi aree urbane: oltre ad aver cominciato a contingentare la vendita di nuove auto private, stanno ritornando indietro, quantomeno sulle infrastrutture, aprendo alla ciclabilità nuovi spazi che prima erano stati cancellati dal traffico.

Sulle strade italiane, soprattutto nelle grandi città, assistiamo a un “proliferare” di ciclisti. Quanti di questi sono sportivi, turisti o occasionali del fine settimana, e quanti invece sono veramente pionieri di questa nuova mobilità quotidiana che sostituisce l’automobile?

Questo è un tema Spinoso. Mentre è difficile che si confonda un pedone con chi si allena per correre i 10.000 metri o la maratona, in ambito ciclistico chi è cicloamatore (cioè chi va in bicicletta per sport) viene spesso confuso con chi fa commuting: chi si sposta per esigenze quotidiane, per lavoro o svago. Le due categorie utilizzano lo stesso mezzo ma hanno bisogni e necessitano di infrastrutture completamente diversi: la pista ciclabile non va bene per il cicloamatore, e la strada provinciale naturalmente non va bene per chi fa spostamenti pendolari quotidiani all’interno di un’area urbana. Possiamo dire che la quota di cicloamatori resta stabile, ma ha poco a che vedere con le esigenze di mobilità; così come chi si allena per la maratona ha poco a che vedere con le esigenze della pedonalità. Invece, fortunatamente, è decisamente in crescita la quota di persone che utilizzano la bicicletta (quotidianamente, nda.) sia in centri più piccoli, dove la bicicletta potrebbe diventare subito una reale alternativa alla mobilità per tantissime persone (non per tutte); ma anche in centri più grandi come Roma e Milano. Sicuramente Roma ha abbandonato quello “zero virgola” percentuale per l’uso della bicicletta che la caratterizzava da tempo. Milano invece aveva già una quota non proprio prossima allo zero, sicuramente grazie all’azione fatta per ampliare gli spazi della ciclabilità, e ha visto crescere il numero di persone che vanno in bicicletta. La formula comunque è semplice: più aumentano gli spazi disponibili per la ciclabilità, più le persone possono scegliere di usare un mezzo piuttosto che un altro: cioè pedalare piuttosto che stare al volante.

Nell’ultimo anno sono state fatti 200 chilometri di nuove ciclabili in tutto il paese. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono stati destinati 600 milioni per 1800 km di nuove piste ciclabili. Quindi siamo a 2000 km negli ultimi anni. Bastano a coprire le esigenze di una ciclabilità nuova, per come la stiamo immaginando?

La ciclabilità è un po’ come le ciliegie: una tira l’altra. Ampliare la rete oggi, cioè pensare che si possano fare nuovi 2000 km, intanto vuol dire praticamente fare in pochi anni quello che è stato fatto negli ultimi trenta. Quindi le cifre sono considerevoli. Ogni nuova connessione ciclabile tra due grandi attrattori crea ulteriore domanda. Quindi, sicuramente, questo intervento che noi oggi valutiamo importante diventerà ancora più importante; perché una volta realizzate le prime infrastrutture, sicuramente ci sarà una nuova domanda da parte degli utenti e dei cittadini, quindi possiamo affermare con certezza che poi ci sarà una crescita ulteriore di ciclabili. Sempre il Next Generation EU (il piano continentale per investimenti nella sostenibilità, nda.) inserisce al suo interno il GRAB (Grande Raccordo Anulare delle Bici di Roma, nda.) che è stato il prologo della nascita del sistema nazionale delle ciclovie turistiche.  Anche lì ci sono centinaia di milioni disponibili per avviare i lavori, e pensiamo che quando queste ciclovie si riempiranno di utenti sicuramente ci sarà modo per creare nuove infrastrutture per la mobilità leggera.

La pandemia ci ha tolto molto ma ci ha anche regalato qualcosa. Si parla di due milioni di biciclette acquistate nel 2020, anche grazie agli incentivi statali; e addirittura un +44% delle biciclette elettriche vendute in quest’ultimo anno. È un vero punto di svolta? Oppure, come tante attrezzature sportive che compriamo con le buone intenzioni, come lei ha scritto in un libro poi finiscono sul balcone o in cantina?

Questo è un pericolo serio; perché a determinare il vero valore aggiunto della bicicletta non è tanto il possesso, quanto l’uso che se ne fa. Credo che per fare una valutazione seria sia necessario aspettare i prossimi due anni. Certo è che gli incentivi per la ciclabilità sono sicuramente interessanti, però dovrebbero essere destinati all’acquisto di veicoli che effettivamente servano alle esigenze quotidiane. Faccio un parallelo: se voglio incentivare la mobilità elettrica, sicuramente non dò gli incentivi per comprare una Formula E, ma per un’utilitaria. Allo stesso modo le biciclette da corsa o per attività sportive, dovrebbero essere escluse dagli incentivi, e bisognerebbe invece favorire le biciclette che servono per il pendolarismo urbano. In questo modo si evita anche l’ambiguità di tenere insieme due categorie che hanno entrambe diritti, ma diversi. Non capire che sono diritti ed esigenze diversi crea una confusione che spesso non aiuta lo sviluppo della ciclabilità.

Nella ciclabilità sostenibile ed elettrica ricadono diversi tipi di mezzo: per esempio i monopattini, gli hoverboard, i monoruota, più rari da vedere in giro, le normali biciclette elettriche da passeggio, quelle sportive, ecc. Quali le sembrano i mezzi più promettenti per sostituire l’auto, considerando l’automobilista medio italiano?

Sicuramente è un rovesciamento di gerarchie, quello che può contribuire ad una diversa mobilità negli spazi urbani. Al primo posto c’è sicuramente la mobilità attiva: sulle distanze che lo consentono vanno nella direzione giusta gli spostamenti a piedi e in bicicletta, che vanno sicuramente incentivati. Al secondo posto metterei il trasporto pubblico: l’insieme di bus, tram, metropolitane, laddove questo sia possibile e queste strutture siano già state realizzate. Al terzo posto, un contributo fondamentale potrà darlo sicuramente la mobilità condivisa, nella quale possiamo inserire tutti i mezzi in “sharing” (servizi di condivisione tramite app e software vari, nda.), compresi i monopattini che girano per le nostre città. Il monopattino, che pure suscita tante polemiche come qualsiasi innovazione nel nostro paese, oggi ha un valore aggiunto relativo allo spazio. Cioè, il monopattino evidenzia la necessità di un nuovo uso dello spazio urbano: la necessità di non destinare l’80/85% dello spazio pubblico disponibile all’auto privata. Quindi in qualche modo contribuisce ad una ridefinizione degli usi e delle funzioni delle strade e delle piazze. Sicuramente ha bisogno di essere ordinato, in qualche misura; ma non di essere contrastato.

Come tutti sui social leggo spesso commenti animati, e animosi, in risposta ad articoli, notizie o post su nuove ciclabili nelle grandi città che, gioco-forza tolgono spazio alle carreggiate stradali e ai parcheggi. Ci sono dei luoghi comuni da sfatare e soluzioni al conflitto automobilista/ciclista? Mi chiedo anche se esista questa differenza manichea fra l’automobilista e il ciclista.

A mio giudizio ovviamente non esiste. La soluzione coerente per la mobilità non sta nell’affezionarsi a un mezzo di trasporto, che sia l’auto o la bicicletta, ma nell’usare il mezzo più efficiente in relazione allo spostamento che si effettua. Per cui ci sono circostanze in cui è necessario l’uso dell’automobile e non esistono alternative, e altre in cui uno spostamento può essere effettuato a piedi o in bici. Come si fa a evitare tutte queste polemiche? In realtà gli elementi conoscitivi già ci sarebbero: una vasta letteratura evidenzia che, laddove siano stati fatti interventi per pedonalizzare spazi o per aumentare le infrastrutture ciclabili, ci sono stati solo ed esclusivamente vantaggi, da tutti i punti di vista: riduzione dell’inquinamento atmosferico e acustico, dell’incidentalità stradale, aumento del valore degli immobili e del volume degli scambi negli esercizi commerciali. Quindi gli elementi ci sono già tutti. Peraltro anche le categorie che oggi si oppongono (penso ai commercianti che spesso manifestano contrarietà a interventi per la ciclabilità) una volta che l’intervento è realizzato, ne capiscono le positività e non tornano indietro. Credo che con le polemiche avremo a che fare ancora per qualche anno; finché non diventerà diffusa la coscienza che la ciclabilità è un mezzo di trasporto. Sicuramente non è un mezzo che può andare bene per tutti e in tutte le occasioni. Però può andare sicuramente bene per circa la metà degli spostamenti in ambito urbano effettuati oggi con le automobili, che viaggiano spesso per distanze non superiori ai 2/3000 metri e quindi potrebbero essere addirittura coperte a piedi. Bisogna avere la pazienza di dimostrare su strada che la ciclabilità non è la panacea di tutti i guai delle città e di tutti i mali della mobilità; però sicuramente è uno degli strumenti più efficaci per avere delle città più attrattive, sane, moderne e anche per una mobilità molto più efficiente.

Traendo spunto dai commenti dei cittadini le chiedo: ci sono ciclabili “giuste” e “ingiuste”? Cioè fatte bene e fatte male. Oppure, come dice qualcuno, anche ridipingere di rosso un marciapiede fa comunque bene alla causa finale?

Come tutte le opere pubbliche ci sono ciclabili fatte bene e altre fatte male. In passato forse ci si poteva accontentare anche di quelle fatte male perché serviva anche per segnare una nuova necessità (a dire la verità non l’ho mai pensata così). Oggi invece si sa benissimo che una ciclabile con standard geometrici e funzionali, e con un’attrattività dei dintorni – ossia un’infrastruttura che contribuisce non solo a far passare le biciclette ma riqualifica anche la zona circostante – garantisce il maggior numero di utenti. Mentre una ciclabile fatta male può creare conflittualità tra i vari utenti: pedoni e ciclisti in particolar modo; e soprattutto non crea shift modale: non fa cambiare i flussi di mobilità. Quindi il tempo è maturo per cominciare a fare infrastrutture di qualità per la ciclabilità; o meglio, per cominciare a pensare alla ciclo-mobilità con quell’attenzione che si dedica ad altre infrastrutture.

Lei è uno dei promotori, degli ideatori e dei punti di riferimento del GRAB di Roma, l’anello ciclabile che è stato progettato e vedrà la luce nel prossimo futuro. A che punto è il progetto? e che impatto vi attendete sul cronico traffico romano?

Il GRAB propone un modello, un approccio diverso; e propone quella qualità urbana e quell’attenzione alla realizzazione dell’infrastruttura di cui parlavamo prima. Non riesco a valutare l’impatto che potrà avere sul traffico però, fidandosi della letteratura scientifica, possiamo sicuramente pensare che avrà un impatto complessivo sul numero degli utenti della bicicletta. Cioè sarà un volano per invogliare le persone ad usare la bici, prima per gli spostamenti per svago (ad esempio andare al museo, al cinema, nelle ville storiche o all’Auditorium) che rappresentano una quota importantissima degli spostamenti totali in bicicletta, per poi passare ad un uso più quotidiano. Naturalmente per avere un reale impatto sul traffico, il GRAB dovrà garantire l’intermodalità: lo scambio con tutto il sistema di trasporto su ferro è già previsto dal progetto; ma dobbiamo anche contare sul fatto che la rete ciclabile prevista dal PUMS (il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile che incorpora il “Piano del sistema della ciclabilità”, nda.) sia realizzata il più rapidamente possibile in maniera tale da avere, come in passato è avvenuto per le auto, un raccordo anulare e tutta la rete che consenta alla mobilità attiva di spostarsi all’interno e all’esterno dell’anello.

Voi precursori della ciclabilità urbana state vedendo in questi anni realizzarsi i vostri progetti: abbiamo parlato del cambio di mentalità, di incentivi che arrivano dall’Europa e dal PNRR. Bastano queste cose per accelerare il fenomeno o serve altro: più incentivi, più ciclabili oppure, come dice qualcuno, i disincentivi alle auto?

Si, le politiche devono essere “push and pull” cioè occorre spingere a fare una cosa, ma dall’altra parte occorre trattenere dal farne un’altra. Sicuramente uno degli interventi più interessanti è quello che riguarda la regolazione della sosta. Anche qui potremmo prendere esempio da ciò che hanno fatto le grandi capitali europee, dove la sosta su strada, non solo ha raggiunto costi particolarmente elevati, molto più alti rispetto alla sosta in strutture e garage sotterranei, ma progressivamente è stata eliminata. Incidere sulla sosta vuol dire recuperare spazio per le altre infrastrutture e, in prospettiva, ridurre anche il possesso di auto, come ci dimostrano le esperienze straniere. Nello stesso tempo, oltre alla riduzione della sosta, va però incentivata l’altra mobilità: quella sostenibile, non inquinante, sicura, facendo grandi investimenti sul trasporto pubblico. Perché la ciclabilità rappresenta sicuramente un punto di svolta importante, ma all’interno delle aree urbane deve essere accompagnata anche dal progresso, dall’efficienza e dalla qualità di tutti i mezzi di trasporto pubblico.

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