Cambiamento Climatico

Il clima causa le guerre. La soluzione è politica.

Il climatologo Antonello Pasini, coautore del libro “Effetto serra, effetto guerra” ribadisce che all’origine di molte guerre e conflitti attuali c’è il riscaldamento globale… che in Italia è doppio rispetto alla media mondiale.

“Che cosa c’entra il clima con i conflitti, le migrazioni e magari il terrorismo?”
È la domanda che si pongono come punto di partenza i due autori di “Effetto serra, Effetto Guerra” (ed. Chiarelettere): Antonello Pasini e Grammenos Mastrojeni, un climatologo e un diplomatico che analizzano, ognuno con le proprie competenze, le dinamiche complesse all’origine dei conflitti regionali, religiosi ed etnici, delle guerre e delle migrazioni di massa che affliggono la nostra epoca. Siccità e inondazioni, innalzamento degli oceani, epidemie che colpiscono gli allevamenti, raccolti distrutti e impoverimento dei mari. Tutte catastrofi che da naturali diventano economiche e poi sociali, e possono dar vita a conflitti più o meno gravi. Il libro si chiede anche: “Vogliamo continuare a vivere in perenne emergenza?”, proponendo delle soluzioni. Recentemente abbiamo incontrato uno degli autori del volume, Antonello Pasini, climatologo del CNR e docente di Fisica del Clima all’Università degli Studi Roma Tre, in occasione di una presentazione del libro presso l’associazione culturale Cercopiteco a Roma. L’intervista è stata trasmessa in “Ecosistema”, il programma di Earth Day Italia su Radio Vaticana.

Professor Pasini, partiamo dal tema del libro. Di solito associamo le grandi migrazioni e gli esodi dei popoli a situazioni di povertà estrema, economica, oppure a pericoli come le guerre. Il suo libro però contribuisce a farci capire che anche il clima è una “causa di innesco” di queste situazioni. Quale meccanismo attiva di solito queste dinamiche?

Il clima può essere una causa di innesco vero e proprio. Una causa “prima”, oppure una concausa che accelera o amplifica delle crisi preesistenti.

Il primo è, ad esempio, il caso della guerra civile in Siria, dove una grande siccità dal 2007 al 2010, che sarebbe stata estremamente improbabile in epoca pre riscaldamento globale, ha fatto in modo che i contadini perdessero completamente i raccolti e si inurbassero nelle città. Di conseguenza: conflitti per l’acqua e per le derrate alimentari, i cui prezzi stavano salendo in maniera esorbitante. Se a questo aggiungiamo la speculazione sui prezzi, un regime corrotto e così via, abbiamo visto che è scoppiata la guerra civile siriana che poi, come estrema conseguenza, ha portato milioni di profughi lungo la rotta balcanica.

Altro caso è quello invece delle migrazioni sulla rotta mediterranea, che passano dalla Libia ma provengono dalla fascia del Sahel. I dieci paesi della fascia del Sahel sono già in crisi poiché hanno economie di sussistenza; in quella regione il cambiamento climatico amplifica e accelera questa crisi causando una desertificazione galoppante. Il deserto sta “mangiando” i terreni fertili, e ciò crea ulteriori perdite di risorse alimentari e idriche per i raccolti. Quindi tutto amplifica enormemente questa situazione da cui nascono i conflitti per le risorse e poi le migrazioni.

Il suo libro parla anche dell’Italia. Durante la presentazione lei ha citato un dato che sinceramente non conoscevo: in Italia la temperatura aumenta più della famosa temperatura media globale che stiamo cercando di controllare con l’Accordo di Parigi e tutto ciò che ne consegue. Ci può spiegare perché? 

Innanzitutto perché l’Italia è una terra emersa, e sulle terre emerse i suoli si riscaldano più degli oceani per un fattore fisico: perché l’acqua una “capacità termica” maggiore, come diciamo noi fisici. Quindi la temperatura cresce più lentamente che sulle terre emerse. Ma in Italia c’è anche un altro fattore: cioè sempre più ondate di calore, anticicloni africani e cose di questo tipo. Ciò è originato sostanzialmente dal fatto che, a causa del riscaldamento globale di origine umana, la circolazione equatoriale e tropicale si sta espandendo verso nord. Questi anticicloni, che prima erano fermi, fissi sul Sahara, ogni tanto entrano nel Mediterraneo e in Italia, e dunque la circolazione proviene un po’ più spesso da sud. Questi due fattori insieme (il fatto di essere una terra emersa il cambiamento di circolazione) hanno fatto in modo che negli ultimi cento anni l’Italia si sia riscaldata di due gradi centigradi, anziché di un grado come la temperatura media globale.

Lei ha fatto cenno a delle fake news che girano a proposito del clima. Lasciando da parte i negazionisti, che ormai sono davvero a un angolo, quali sono gli errori che fa la comunicazione, anche in buona fede, rispetto alle dinamiche climatiche?

A volte c’è la mania del giornalismo italiano di mettere sempre il contraltare: insomma avere il dibattito a tutti i costi. Come se, parlando di stelle, si debbano invitare sia l’astronomo sia l’astrologo. Quando si parla di un problema di medicina, ad esempio di un problema cardiaco, giustamente si invita il cardiologo ma non l’oculista. Questo per noi (climatologi) succede spesso. Poi c’è il fatto che l’informazione è ancora troppo generica: insomma si fa tutto un calderone e si confonde spesso un fenomeno con un altro.

Questo è un problema di cultura scientifica. Il nostro paese obiettivamente non ha una cultura scientifica. Dai tempi di Benedetto Croce in poi, la cultura scientifica è considerata una cultura tecnica e di serie B. Questa è una cosa che va ribaltata, soprattutto oggi che viviamo immersi dentro sistemi complessi. La scienza dei sistemi complessi è fondamentale. Pensiamo all’economia globalizzata, a internet, e ovviamente ai cambiamenti climatici e al clima: sono tutti sistemi complessi, in cui per risolvere un problema non si può agire localmente. Questo è il modo di agire a cui eravamo abituati con i sistemi semplici; con i sistemi complessi non lo possiamo più fare. Lo chiarisce benissimo il Papa quando dice: attenzione, non applichiamo il “paradigma tecnocratico”. Il paradigma tecnocratico è esattamente questo: tappare un buco qui ma aprire una falla da un’altra parte.

Durante la presentazione del libro lei ha dato una spiegazione che abolisce un argomento forte di chi sostiene che questo cambiamento climatico non sia poi tanto disastroso ed epocale: cioè il fatto che sia già successo in passato. Si evocano periodi più caldi: secoli o decenni nel passato che sono stati più caldi; come ai tempi dell’impero romano e nel medioevo. Lei ha mostrato delle mappe che fanno capire che c’è una differenza, e molto importante. 

Ho preso spunto da un articolo apparso pochi mesi fa su Nature, in cui dei colleghi hanno mostrato come il riscaldamento globale degli ultimi cinquanta o sessant’anni sia completamente diverso da tutti gli altri. Perché è globale e ubiquitario: avviene nello stesso momento, quindi è ubiquitario spazialmente e sincrono temporalmente. Tutti i riscaldamenti del passato hanno interessato diverse zone del pianeta, in momenti diversi.

Ad esempio il clima caldo al tempo degli elefanti di Annibale [III secolo a.C., nda.], in quel periodo era soltanto in Europa. Oppure quello riferito alla Groenlandia “terra verde” era soltanto in quel periodo, in quella zona a nord. Tutto questo significa che questi riscaldamenti passati hanno mostrato essere compatibili con una variabilità naturale del clima. Quest’ultimo riscaldamento invece è forzato: influenzato fortemente da qualcosa che viene dall’esterno del sistema. Oggi sappiamo che cos’è: è l’aumento di CO2 in atmosfera, dei gas serra, la deforestazione e così via.

In questo libro è anche presente quello che lei ha definito il “gemello cattivo del cambiamento climatico”. Qualcosa che in effetti emerge ogni tanto dalla comunicazione e dall’educazione ambientale ma non così spesso come i cambiamenti climatici: l’acidificazione degli oceani. Da cosa è provocata e a cosa porta?

Gli oceani ci danno una grossa mano ad assorbire una parte dell’anidride carbonica che  immettiamo in atmosfera. Ne assorbono circa un terzo. Ma così facendo le acque diventano più acide: cambia il PH, come dicono i chimici. Finché si tratta di pochi decimi di PH in meno non succede niente, ma al di sotto di certe soglie si sciolgono i gusci calcarei. Purtroppo gli animaletti con i gusci calcarei sono soprattutto quelli del plancton: quei piccoli animali alla base della catena alimentare. Se scomparisse parte della base della catena alimentare marina, tutta la vita in mare ne risentirebbe fortemente.

Il libro propone anche delle soluzioni: quanto può fare la nostra società. Che cosa possiamo fare per fermare questo riscaldamento?

È chiaro che, nel momento in cui i grandi della Terra non si mettono d’accordo, o si accordano al ribasso, dobbiamo fare qualcosa con delle spinte dal basso. Innanzitutto, come dicono i ragazzi dei Fridays For Future, cambiando il nostro stile di vita in modo più sostenibile; ma anche innescando dal basso dei circuiti virtuosi: di consumo, di risparmio, di produzione di energia distribuita. Chi più ne ha più ne metta.

Attenzione però! Perché qui si tratta veramente di una svolta epocale: bisogna transitare verso un’economia decarbonizzata; e la transizione va fatta in maniera politica, c’è poco da fare. Dev’essere gestita dalla politica; altrimenti si rischia di far pagare i costi di questa transizione alle fasce più deboli. Dobbiamo spingere sui nostri politici, o diventare politici a nostra volta, in modo da portare questi problemi in primo piano nell’agenda politica attuale.

A me sembra che si giochi su vari piani, soprattutto da parte di voi scienziati e divulgatori, che avete in mente il quadro globale. Cioè appunto: convincere l’opinione pubblica per questa transizione; convincere la classe politica e i dirigenti a tutti i livelli; ma anche convincere i grandi decisori economici: la banca mondiale, le grandi multinazionali, ecc. Nella sua esperienza di interlocutore di queste aree della società: chi è più facile convincere e portare su questa strada? 

Direi le persone di buona volontà: i singoli che approcciano questo problema, prendono consapevolezza e cominciano ad agire in questo modo. Qualcuno comincia ad accorgersene anche nel mondo del business. Per esempio l’Accordo di Parigi dà un messaggio molto chiaro: dobbiamo decarbonizzare. Quindi fare business sul carbone, sul petrolio, e in parte anche sul gas naturale, non ha senso. Chi arriva per primo a fare business su altre cose ha dei vantaggi. Questo lo deve capire anche chi si ispira a un pensiero liberista; e cominciano a capirlo. Certo non tutti: ci vuole che tutti gli strati della popolazione, dal basso ai livelli politici e decisionali, comincino a mostrare dei segni di cambiamento. Qualche segno c’è e quindi, tutto sommato, non sono pessimista al 100%. C’è sicuramente uno spiraglio di ottimismo.

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