Fake news, hate speech, pseudoscienza e false teorie dilagano grazie al web e ai social, minando la credibilità del mondo dell’informazione e mettendo in pericolo il progresso negli ambiti della sostenibilità e dell’innovazione. Fernando Diana, CEO di City News, riflette sul ruolo del giornalismo, sulle modalità della corretta informazione, e su come far arrivare al pubblico notizie utili e verificate su temi come energia, sanità e politiche ambientali.
Con un intervento improntato alla passione per l’innovazione, Fernando Diana, CEO del network City News, ha partecipato lo scorso 5 luglio al convegno “Innovazione e sviluppo sostenibile. L’ecosistema italiano tra sfide e opportunità”, organizzato da Next4 e Impatta alla Casa del Cinema di Roma. Innovazione che Diana ha descritto come una spinta fondamentale per restare all’avanguardia nel settore dell’informazione giornalistica. Soprattutto in un paese come l’Italia con una grande tradizione nel campo, ma con ritardi tecnologici e infrastrutturali da recuperare in fretta per restare al passo con un mercato digitale, quello del web e delle applicazioni mobili, che hanno preso le redini della comunicazione a livello globale. A margine del convegno abbiamo potuto raccogliere le sue riflessioni sull’evoluzione della professione, e approfondire i temi dell’innovazione più interessanti dal punto di vista giornalistico con uno dei massimi esperti e “gestori” di redazioni: il network City News si compone infatti di 53 redazioni, oltre 400 giornalisti e raggiunge circa 33 milioni di lettori unici al mese.
Diana, iniziamo con la funzione dell’editoria e del giornalismo come mediatori dei temi della sostenibilità e dell’innovazione verso il pubblico. Il rischio è che in nome della “appetibilità” della notizia si confondano esperimenti e startup, anche interessanti e innovativi, con nuove tecnologie, software, e nuove forme di economia verde che abbiano una visione e applicazioni credibili per il futuro. Come si pone un editore di fronte alla notizia di un’innovazione prima di pubblicarla?
Il tema è estremamente delicato e negli ultimi anni ha riguardato non solo il web ma in generale il ruolo dell’editore: spesso l’ho riscontrato anche sulle testate giornalistiche delle reti pubbliche e sulla carta stampata. Come si pone l’editore e il giornalista di fronte a tematiche che hanno un impatto sulla vita quotidiana di tutti, ma che hanno uno scalino di ingresso alla comprensione un po’ più alto? Spesso si selezionano informazioni o racconti più orientati al sensazionalismo, piuttosto che a un’informazione corretta che renda più efficace la divulgazione. Una tendenza che si è amplificata con la diffusione del web. Inseguendo il sensazionalismo si ottiene un grande effetto della notizia sul momento: se ne parla per due o tre giorni, ma poi tutto finisce nel dimenticatoio perché si passa a cose più interessanti da raccontare. In un mondo sempre più complesso il ruolo del giornalismo, e dell’informazione in generale, è offrire una mediazione che aiuti la comprensione della complessità a un pubblico vasto, fatto di molte persone informate e molte altre poco informate. Quale mediazione riusciamo a svolgere per raccontare l’importanza dell’innovazione e della ricerca scientifica, e per far comprendere il potenziale impatto sulla vita di tutti? Non è assolutamente semplice ma va sicuramente fatto. Nella complessità del fare informazione oggi si è sempre più stressati dal “generare numeri” e quindi, ogni tanto, la mission deontologica di supporto alla comprensione viene offuscata dalla ricerca della quantità di soggetti da raggiungere. In questo c’è il rischio di dare informazioni flash e sensazionalistiche di cui resta poco.
Certamente questo è un lavoro difficile da fare, soprattutto per un prodotto generalista come il nostro che svaria dalla cronaca agli eventi, dai contenuti più leggeri all’informazione scientifica per la quale serve specializzazione: anche se ci si rivolge a un pubblico generalista bisogna farlo in modo corretto e quindi specializzato. Vista la crescente complessità del nostro mondo, raggiungere quell’obiettivo è un lavoro a più mani: c’è il ruolo dell’informazione, quello della divulgazione scientifica, e quello delle scuole e dei luoghi di formazione dove è anche più “semplice”, perché sono luoghi deputati alla crescita e alla divulgazione verso i target più predisposti a comprendere certi cambiamenti. Diventa sicuramente complesso fare divulgazione al target che usufruisce principalmente dello strumento televisivo, caratterizzato da un basso approfondimento e [fatto di] contenitori più orientati all’intrattenimento che all’informazione.
In una grande redazione, un network, come City News a chi viene demandato il ruolo di selezionare la notizia, darle un tono, un rilievo e anche una giusta collocazione tra le varie rubriche? Prendiamo ad esempio una notizia scientificamente “pesante”, come lo sviluppo delle auto ad idrogeno, e un’altra più di “costume” che comunque abbia un alone di scientificità, come un prototipo di auto volante.
Per quanto possa essere grande, una redazione ha dei modelli organizzativi. Nel nostro caso ci sono 53 redazioni con altrettanti responsabili di redazione e dieci direttori. La notizia può nascere dal giornalista che la propone, ma poi passa per una discussione. Discussioni che facciamo a monte per capire se ha senso lavorarci e costruirci sopra un contenuto. Così si evita anche di perdere tempo, se quel contenuto non è nelle corde della redazione. Per questo il direttore e il responsabile della redazione sono le figure chiave. Il processo avviene in questo in questo modo, ma queste scelte riguardano dei casi limite, perché quando a monte c’è una corretta impostazione della struttura redazionale, tutti sanno già qual è la linea: sanno che contenuti vogliono l’editore e il direttore e che taglio dargli.
Un altro tema è la preparazione scientifica di chi dà le notizie: i giornalisti. Formarsi e informarsi su un ampio spettro di argomenti è quasi impossibile, anche restando ai soli ambiti della sostenibilità, dell’ambiente e dell’innovazione. Questo è un problema che probabilmente gli editori e i giornalisti si pongono. Qual è la situazione?
Ci sono sempre da fare scelte a monte. Non si può pretendere che in una testata generalista lavorino dei dei giornalisti tuttologi. Sarebbe profondamente sbagliato e si rischierebbe di trattare male quelle informazioni. Il bello del web è aver creato una grandissima verticalizzazione e specificità. Quindi, su un determinato tema come la sostenibilità, sono titolati e diventano fonti attendibili quelle testate, quegli editori e quei giornalisti che sul tema hanno creato un expertise. Un prodotto generalista, per quanto sia una testata riconoscibile e riconosciuta come affidabile, non può esserlo se a un certo punto comincia a parlare di tematiche di carattere squisitamente scientifico senza aver fatto un percorso, ed essersi dotata di una struttura interna che la renda affidabile e riconoscibile da quel punto di vista. Quindi bisogna essere seri: se una notizia (di carattere scientifico, nda.) è appetibile o sconvolgente si fa un rilancio di agenzia; a patto che quel lancio sia stato visto all’interno dell’agenzia da un giornalista che ne sappia della materia. Altrimenti vengono rilanciate notizie che di fatto non hanno grande fondamento.
Alla fine tutto sta nel fare delle scelte. Chi ad esempio, in un determinato momento, ha fatto la scelta editoriale coraggiosa di seguire una nicchia – e ne esistono tante nella complessità del mondo moderno – magari ha capitalizzato quel lavoro perché si è posizionato su quell’argomento, ed è riconosciuto dal mercato come un una fonte attendibile e un interlocutore credibile. Prima però quella persona o quell’editore hanno fatto investimenti e una grande fatica, magari per dieci anni, per seguire quell’argomento. Questo è un approccio serio e strutturato. Se invece si insegue la moda (e in questo momento tutti parlano di innovazione e sostenibilità) e ci si improvvisa, facendo scelte più tattiche che strategica, senza una struttura giornalistica-editoriale che segua quell’argomento, prima o poi si farà qualche danno. A tutto questo si lega il tema delle fake news e il fenomeno dell’hate speech (i commenti ingiuriosi pubblicati sui social verso chi da notizie o verso i protagonisti delle notizie stesse, nda.): ancora oggi, anche sulle [false] informazioni più facilmente riscontrabili, ci sono persone che si lasciano confondere da testate non riconosciute o non attendibili; e quelle notizie vengono diffuse. Quando si passa al livello scientifico, se non si possiede un’educazione scientifico-tecnologica, analizzare un’informazione diventa sicuramente più complesso.
Il mondo dell’editoria sente l’esigenza di una sorta di certificazione delle testate, come avviene per esempio per i profili social dei personaggi pubblici?
Esistono diversi esperimenti. Come sappiamo bene la diffusione delle informazioni avviene attraverso i social e i motori di ricerca. Entrambi i player principali, Google e Facebook, hanno messo in piedi strumenti di questo tipo. Google al suo interno ha un programma specifico per le news e le informazioni (Google News Showcase, nda.): in tutto il mondo stabilisce e consolida rapporti con gli editori ritenuti attendibili. Il programma è uscito quest’anno; fa accedere alle testate maggiormente attendibili e dà priorità a queste informazioni. Facebook aveva perseguito un’altra strada: affidarsi a una fondazione esterna che verificasse tutte gli editori e le fonti e desse un “bollino”. Il concetto è che un editore che ha dimostra di essere affidabile nella sua storia di venti o trent’anni, tendenzialmente è affidabile e difficilmente produce una fake news. Banalmente, la regola base è sempre verificare le notizie, e se non si conosce o non si è in grado di verificare un argomento, meglio non dare quella notizia.
Entrambi i player stanno approcciando il tema. È un rapporto bilaterale perché da un lato noi forniamo contenuti, dall’altro loro sono fonti primarie di traffico, quindi siamo strettamente connessi. Stanno approcciando in maniera diversa la tematica e le problematiche collegate, sapendo che la diffusione delle fake news e l’alimentazione dell’hate speech non danneggia solo gli editori ma loro stessi; perché trovare una fake news in una posizione alta della ricerca di Google, indebolisce la posizione di Google stesso. La forza di Google è dare la risposta più attinente e pertinente possibile alla ricerca. Quindi nel “contratto” tra lettore, editore e piattaforme di distribuzione dei contenuti, anche queste ultime sono molto attente a offrire l’informazione più corretta possibile. Se su Facebook continuano a girare alcune [false] informazioni, è lo stesso “prodotto Facebook” che ne esce indebolito. Fermo restando che [il controllo] all’interno dei social è decisamente più complesso rispetto ai motori di ricerca; perché nei social si creano delle reti di soggetti. Noi non vediamo alcune fake news se non girano all’interno della bolla delle nostre relazioni; ma questo non vuol dire che non esistano e non stiano circolando. Quindi all’interno dei social si pone la tematica delle tante bolle che a volte si incrociano ed altre no; e ognuno tende a leggere determinati tipi di contenuti. C’è anche una cristallizzazione e una radicalizzazione dell’opinione, perché si tende a leggere sempre le stesse fonti e a interagire con le stesse persone che la pensano in modo simile. La diffusione dell’informazione tramite i social ha complessità molto più ampie rispetto che al web “libero”.
Sui temi della sostenibilità ambientale è difficile trovare una testata che abbia una linea. Nei quotidiani “storici” la linea era politica ma anche filosofica, ed era scritta sotto la testata. Sull’ambiente è difficile che una testata dichiari di essere, ad esempio, per il fotovoltaico o per il nucleare; oppure, sulla mobilità a zero emissioni, che promuova lo sviluppo dell’idrogeno piuttosto che delle reti di distribuzione di energia elettrica. Queste sono posizioni che prendono le associazioni ambientaliste o politiche, ma non le testate, a parte quelle specifiche. City News ha delle linee, ad esempio, sulla gestione della fauna selvatica? Sono tutti argomenti dove non c’è il bianco e il nero, quindi è più difficile scegliere.
Dai per scontato che l’editore debba prendere posizione.
Questa è la domanda. Conviene restare neutrali?
Non è una questione di convenienza ma di ruolo. Bisogna fare in modo che le opinioni emergano. Un esempio molto pratico: quando c’è da fare una centrale a biomasse o un rigassificatore ci sono sempre delle posizioni contrapposte, con le comunità locali che si oppongono. Al “Perché lo dovete fare proprio qui?” si contrappone il “Da qualche parte la dobbiamo fare perché è importante per il paese”. La nostra linea è sempre raccontare e far parlare le due parti, in modo che il lettore sia in grado, attraverso il confronto, di far emergere la propria opinione, ascoltando le ragioni giuste o sbagliate. Questo è molto importante: chiediamo sempre ai nostri direttori che l’opinione sia ben chiara e distinta dal racconto del fatto. L’opinione viene data spesso anche dal direttore e dai nostri giornalisti, ma nel loro blog specifico, con la loro firma e la loro faccia. Tentiamo di essere rigidi su questo perché non vogliamo che ci sia confusione. Non vogliamo che la nostra testata sia identificata, politicamente o sotto altri aspetti: non è il nostro mestiere. Anzi, pensiamo che spesso la rovina dell’editoria, del giornalismo e l’informazione sia stata fare l’organo di partito, in modo trasparente o occulto. Da un certo punto di vista la situazione è anche peggiorata, perché prima sul giornale c’era scritto “organo del partito…”; oggi abbiamo degli organi di partito a tutti gli effetti ma in modo assolutamente opaco. Ci sono dei direttori che intervengono in trasmissioni come se fossero dei leader di partito. È un modello che non condividiamo.
Alcune volte è facile fornire la doppia opinione: ad esempio sul nucleare ci sono voci autorevoli pro e contro. Su altri argomenti è però più difficile; lo abbiamo visto con il Covid19. Immagino che sia più arduo per un direttore dare opportunità a chi fa contro informazione sui vaccini senza avere autorevolezza ma solo opinioni; e trovare l’equilibrio tra il censurare quella massa di opinioni e il farla trasparire.
Dipende anche dalla rilevanza e dal peso della cosa. La posizione si prende nel dare o non dare la parola a qualcuno che dà un’opinione differente: tendenzialmente la si dà sempre dove c’è una consistenza. A volte c’è il rischio di dare la parola a fenomeni marginali con il solo risultato di amplificarli. Ho visto “soggetti”, neanche testate giornalistiche, che davano grande spazio ai terrapiattisti per inseguire la moda, fare “colore” e “simpatia”. Un fenomeno talmente piccolo che è stata maggiore l’amplificazione che gli si è data. Se non se ne fosse parlato le poche persone che li conoscevano ci avrebbero fatto sopra quattro risate. Portandolo ad un livello superiore si è data amplificazione a una roba che magari ha degli effetti: perché qui parliamo di anti scienza, non di “opinioni”. Nel dare visibilità a cose di questo tipo, secondo me si fanno dei danni: si fa audience, ci si ride sopra, però si diffondono e amplificano cose che magari fanno presa su una parte della popolazione che non ha quella minima conoscenza scientifica che permetta di dire: “ma di che stai parlando?”.
Altro discorso sono i vaccini e il nucleare. Sono cose che, secondo me, è giusto non trovino mai soluzione. La “pace” sul nucleare non la troveremo mai, se non nel momento in cui supereremo il dibattito con le fonti alternative. Il dibattito sul referendum che facemmo all’epoca (1987, nda.) era talmente importante che comunque non fu risolto; perché effettivamente, ascoltando le ragioni da una parte e dall’altra, non si ha una visione netta di ciò che è giusto o sbagliato. Mi rendo conto che il mio stesso pensiero sul nucleare in trent’anni si è evoluto. Da giovani si è più radicali perché si vede solamente una parte del tema, quello di carattere ambientale. Poi si cresce e, nonostante tutti i disastri a cui si è assistito, da Chernobyl a Fukushima, le stesse persone che erano contro il nucleare si chiedono: “sei disponibile a restare senza computer e senza cellulare? hai compreso quanto dipendi dall’energia? e quale gap ha determinato questa scelta in Italia negli ultimi vent’anni, dal punto di vista dello sviluppo industriale?”. I paesi che hanno deciso per il nucleare si sono avvantaggiati. Ad esempio nel mio settore: perché non nascono data center in Italia? Di questo non si sta parlando. Il data center è una delle industrie più energivore che esistano, per alimentare e raffreddare le strutture; tanto è vero che si fanno data center nei paesi del nord o sott’acqua per abbassare il livello dei consumi energetici. Il fatto che l’Italia non abbia un data center vuol dire che i nostri dati personali sono in giro per il mondo e non ne siamo proprietari. In quel mercato non ci siamo, con tutti i risvolti negativi, perché trent’anni fa abbia fatto quella scelta. Quindi è giusto che il dibattito sia ancora vivo perché come in ogni cosa della vita non si può avere la verità in tasca.
Il ruolo del giornalista e dell’editore non dev’essere assertivo: bisogna raccontare tutti i pro e i contro. Soprattutto rispetto a scelte complesse che il paese deve fare, occorre che il lettore, il cittadino, abbia tutte le informazioni possibili per sviluppare un’opinione ben strutturata. Questo in realtà ancora non accade. Il Covid19 ne è un esempio. Per due anni abbiamo riempito palinsesti e giornali di questa roba; ma quanto era veramente informazione? Quanto c’è da dire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, rispetto a quell’argomento? Fatta la conta dei morti e affrontate tutte le possibili sfaccettature, a un certo punto che cosa puoi aggiungere se l’obiettivo è costruire informazione? Molte persone mi dicevano di essere talmente sovraccariche di informazioni che non sapevano più che cosa pensare. Quando qualcuno passa otto ore della giornata, per due anni, davanti a trasmissioni sul Covid, non ha più un’opinione. Quindi? La comunicazione ha fatto il suo mestiere?
Durante il convegno si è parlato di innovazione a tutto tondo: ad esempio di digital healthcare, la digitalizzazione dei servizi ospedalieri; o anche del controllo delle maree per generare energia e ottimizzare lo sfruttamento delle risorse marine. L’innovazione riguarda ormai ogni ambito della nostra vita. Dal punto di vista giornalistico quali rami ti interessano di più? Quali sono più “notiziabili”?
Alla fine conta sempre intercettare ciò che ha maggiore impatto sulla vita delle persone. Le grandi intuizioni sono quelle che, osservando un comportamento sociale, hanno trovato delle leve di innovazione, migliorando o modificando quel comportamento. Il tema della mobilità è estremamente trasversale, perché tocca tutti. Tutti si muovono per diverse esigenze. Tutto ciò che rappresenta un’innovazione nell’ambito della mobilità, pubblica o privata, relativo ai dati piuttosto che all’hardware, è sempre stato e sarà sempre legato allo sviluppo dell’umanità. Quando l’uomo ha iniziato a utilizzare il cavallo per muoversi ha accelerato i contatti tra le civiltà. Quindi la mobilità è assolutamente centrale.
Una lezione che impariamo dal Covid19 è l’accelerazione imposta alla digitalizzazione, ad esempio nella pubblica amministrazione (cosa che non si sarebbe mai fatta in questo paese), oppure nella scuola. Sono stati toccati dei bisogni primari. L’innovazione che riusciremo a fare nella pubblica amministrazione, nel rapporto fra cittadino e amministrazione locale piuttosto che nazionale, sarà un tema assolutamente affascinante; perché fino a due anni fa era oggettivamente un rapporto complesso. Qualsiasi persona che dovesse fare un documento aveva una pessima opinione della pubblica amministrazione, e dall’interazione si aspettava frustrazione, insoddisfazione, perdita di tempo. In questo dobbiamo produrre un miglioramento e un’innovazione sociale. Dobbiamo partire sempre dai bisogni, dalla giornata di una persona: un lavoratore, uno studente, un pensionato. Si faccia un’analisi nel loro vissuto: quali sono i bisogni primari? La mobilità; il rapporto con la pubblica amministrazione; tutto ciò che è nato nel settore del food delivery; la spesa on-line; ovviamente la sanità, che è centrale soprattutto per una popolazione come la nostra che è più anziana della media. In tutto quello che tocca la quotidianità, e nelle innovazioni sociali che coinvolgono ampie fasce di pubblico, c’è sicuramente un ottimo riscontro. Il vantaggio è che abbiamo una tale arretratezza, sotto certi punti di vista, che produrre effetti positivi con avanzamenti e innovazioni sarà anche facile. Però bisogna fare bene, perché in Italia c’è sempre una tendenza: tutta la tecnologia che passa attraverso il [servizio] pubblico è inquietante. Cioè si è costretti a fare cose assolutamente innaturali e illogiche, per come vengono pensate. Il Pubblico dovrebbe “rubare” questo approccio a noi del privato: noi partiamo sempre dal lettore, dal bisogno. Cioè non partiamo dall’esigenza dell’editore o del produttore di tecnologia: chi guida è il consumatore, il cittadino, il lettore. [La Pubblica Amministrazione] al 99% se ne dimentica: cioè l’esigenza magari è quella dell’operatore che sta dietro lo sportello e non di chi sta dall’altra parte. Sbagliatissimo.