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Rossi Albertini: No al greenwashing del nucleare a fissione. Alle centrali a fusione potremmo arrivare in 10 anni.

Valerio Rossi Albertini, fisico nucleare del CNR e divulgatore scientifico, mette una pietra sopra le attuali centrali a fissione, valuta anche le fonti rinnovabili (sole, vento, idroelettrico e geotermia) come transitorie e propone di orientare le politiche energetiche sulla tecnologia della fusione.

Ai primi di febbraio il consorzio internazionale Eurofusion ha annunciato con soddisfazione un record di produzione di energia da “fusione” nucleare nell’impianto sperimentale di Oxford. Si tratta della tecnologia che, nelle speranze di tutti, fornirà in futuro all’umanità energia a buon mercato, in quantità illimitata e senza problemi di scorie radioattive.
Intanto però in Italia tornano a levarsi voci a favore del nucleare attuale, quello a “fissione”, il cui utilizzo che nel nostro paese è stato bloccato dal referendum del 1987. Molti lo invocano per non dipendere dalle importazioni di petrolio e gas naturale, soprattutto ora che l’est europeo è sconvolto dalla crisi Ucraina.
Molti sostengono che le centrali attuali siano l’unica vera alternativa ecologica ai combustibili fossili: al petrolio, al carbone e al gas naturale. Una frase che si sente ripetere spesso nei dibattiti e sui media è che l’Italia abbia perso negli anni ‘80/90 il treno nucleare, ed ora non possa, come gli altri paesi, supplire ai rincari di gas e petrolio sfruttando questa fonte energetica alternativa. Questo sarebbe vero se tutto il resto del mondo avesse centrali nucleari e generasse gran parte dell’energia necessaria tramite questi impianti. La realtà è che solo 31 paesi, su circa 200, hanno centrali nucleari sul proprio territorio. E soltanto il 10% dell’energia elettrica generata sul pianeta deriva da queste centrali. Da questa percentuale del conto energetico planetario è inoltre escluso l’ammontare di energia non elettrica: ad esempio quella ricavata dai carburanti dei trasporti e dalle industrie alimentati direttamente da combustibili.

In totale le centrali nucleari nel mondo sono circa 450; in Europa ce ne sono circa 100. Per dare un’idea del peso reale della fonte di energia nucleare si noti che gli Stati Uniti hanno 94 reattori operativi che da soli producono il 30% di tutta l’energia derivante da fissione a livello mondiale. Eppure gli USA traggono dal nucleare solo il 9% dell’energia che consumano; risulta maggiore la percentuale generata da rinnovabili: il 12% del loro fabbisogno; e perfino la quota derivata dal “vecchio” carbone (11%) supera quella del nucleare. Ancora meno importanti sono le quote di nucleare di Cina e Russia (Fonte dati: EIA US Energy Information Administration 2020-2021).

In Italia la produzione elettrica attinge per il 45% dalle rinnovabili, per il 42% dal gas, per il 6% dal carbone, e per il 3% dal nucleare estero (Anno 2020 fonte GSE). Tra i grandi paesi fa eccezione la Francia, che dalle centrali nucleari ricava il 70% della sua produzione elettrica, ma dovrà presto fare i conti con l’adeguamento tecnologico degli impianti e la chiusura delle più vecchie. Un impegno non di poco conto tra l’altro: poiché sia dismettere le vecchie centrali, sia costruirne di nuove costa investimenti ingentissimi, nell’ordine dei miliardi di euro per ognuna.

Che differenza c’è tra fissione e fusione? E perché le centrali nucleari attuali sono a fissione e non a fusione? La tecnica a “fissione” (dal verbo fendere, dividere) prevede che nei reattori vengano immessi atomi di uranio 235 o plutonio, elementi di grande massa i cui nuclei vengono bombardati di neutroni per provocarne la scissione. Da questa spaccatura deriva energia, migliaia di volte maggiore rispetto a quella derivata dalle reazioni chimiche di quantità comparabili di carburanti fossili. La tecnica della fissione fu sperimentata da Enrico Fermi negli anni 30 del ‘900 e poi messa in pratica dopo la seconda guerra mondiale, dando vita a tutte le centrali nucleari operanti oggi. La “fusione” invece è il processo contrario: due atomi di un elemento leggero come l’idrogeno vengono forzati a fondersi in uno; anche questo processo rilascia enormi quantità di energia. I vantaggi della fusione sono che gli elementi necessari, l’idrogeno e i suoi isotopi deuterio e trizio, sono abbondantissimi in natura; mentre l’uranio e il plutonio che alimentano le centrali attuali sono relativamente molto meno abbondanti e le miniere sono attualmente localizzate soltanto in una ventina di paesi. Il vantaggio principale però è che dal processo di fusione non “avanzano” scorie radioattive che attualmente bisogna raccogliere e immagazzinare in luoghi sicuri per migliaia di anni. Il problema che ritarda le centrali a fusione è che dividere è più facile che unire, anche in fisica. Le forze (magnetiche) e le temperature (milioni di gradi) necessarie per fondere due nuclei sono paragonabili a quelle che agiscono all’interno del sole, che infatti è un enorme centrale a fusione.

Eurofusion è un consorzio scientifico che impegna circa 5000 tra scienziati, studenti e tecnici di 26 paesi, e 35 istituzioni scientifiche tra cui Enea. Tutti loro stanno sviluppando da decenni la tecnologia necessaria per arrivare al traguardo della fusione; ma si stima che ci vorranno ancora 20 o 30 anni di sperimentazioni. Il successo annunciato a febbraio è stato generare 11 megawatt per 5 secondi: una quantità di energia relativamente importante, ma ben lontana dalla produzione stabile e su larga scala che chi lavora alla fusione promette al mondo. Basti pensare che il record precedente di energia da fusione risaliva al 1997: ci sono voluti quindi 25 anni per raddoppiare la produzione di energia ottenuta. La speranza, come emerge dall’intervista che segue, è che la comunità internazionale punti decisamente su questa tecnologia; moltiplichi i finanziamenti a questi progetti; e la politica orienti ad essi scienziati ed enti di tutti i paesi. In questo modo, come successo per i vaccini anti covid i tempi normali della ricerca possano essere ridotti drasticamente: in questo caso da diversi decenni a pochi anni.
Di seguito l’audio e la trascrizione dell’intervista a Valerio Rossi Albertini, fisico nucleare del CNR, trasmessa durante “Ecosistema” la rubrica settimanale di Earth Day Italia all’interno del programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia.

Professor Albertini, in questi ultimi mesi si parla molto di nucleare. Si moltiplicano le voci a favore di una ripresa di un programma nucleare italiano, soprattutto nell’ottica della transizione energetica verso un futuro sostenibile. Molti danno l’opzione nucleare come indispensabile; è d’accordo?

Dipende da che si intende quando si parla di nucleare. Molto spesso si crea una confusione, un corto circuito, tra il nucleare tradizionale che vuole essere rinnovato: un greenwashing nucleare per ipotetici reattori nucleari di piccola dimensione, da distribuire sul territorio nazionale. Su questo io sono categoricamente, drasticamente contrario; perché i piccoli reattori non risolvono il problema dell’energia, non sono fonti rinnovabili e producono dei problemi di sicurezza e di gestione che, se erano grandi al tempo delle centrali nucleari tradizionali, sarebbero ancora maggiori. Mentre invece, voglio essere chiaro, c’è un nuovo nucleare che io definisco “buono” per distinguerlo dal nucleare “cattivo” a fissione. Il nuovo nucleare è a fusione. È un nucleare pulito, intrinsecamente sicuro, che riproduce i meccanismi di generazione del calore e della luce del Sole, verso cui dobbiamo puntare risolutamente. Sarà una fonte effettivamente rinnovabile da tutti i punti di vista, perché il carburante sarà l’acqua del mare. Siamo ancora distanti: si parla di 20-25 anni. La mia modesta proposta – che dovrebbe essere però condivisa collegialmente con la comunità scientifica – è fare un investimento notevole in questo settore; perché con il nucleare buono, la fusione, dovremmo fare come per i vaccini: per i quali, grazie allo sforzo profuso e ai finanziamenti stanziati, siamo arrivati alla realizzazione in un anno, contro i dieci anni canonici. Si parla di 25/30 anni: se ci impegnassimo tutti insieme e stanziassimo le risorse necessarie, ci potremmo arrivare forse entro 10 anni, perché il risultato ormai è alla nostra portata.

Quando dice “tutti insieme” intende in Italia, in Europa o nel mondo?

Nel mondo. In Europa ci sono vari progetti, ma altre notizie incoraggianti ci arrivano dagli Stati Uniti e dalla Cina. Significa che tutti siamo interessati (e chi potrebbe non esserlo?) ad avere una risorsa energetica inesauribile e, una volta installato il reattore, la struttura, l’infrastruttura, a un costo risibile, irrisorio. Perché il combustibile non sarebbe più l’uranio o il plutonio, ma semplicemente acqua. L’Italia che ha una sensibilità in questo senso; ed oltretutto ha una responsabilità storica: perché il primo reattore nucleare è stato fatto a Chicago nel 1942, ma dal fisico italiano Enrico Fermi e dai ragazzi di via Panisperna che avevano contribuito alla realizzazione di quel progetto. Quindi perché non provare a proporre in sede Europea uno stanziamento straordinario per accelerare un percorso che è già iniziato ma sta procedendo troppo lentamente?

Il mondo ambientalista, anche quello più aperto a questa opzione sulla fusione – ribadiamo: non sulla fissione – sostiene però che ci sia il un pericolo di divergere sulla fusione fondi destinati alle rinnovabili e alla ricerca sulle rinnovabili. Lei è per distribuire equamente questi fantomatici fondi, o per mettere più fondi su entrambi i tavoli?

La mia posizione è che le fonti rinnovabili attuali sono di transizione. Perché quando si accenderà il primo reattore nucleare [a fusione] non ci sarà più bisogno di altro. Ci dobbiamo convincere che la realizzazione di un reattore termonucleare a fusione sarà per il genere umano l’equivalente della scoperta del fuoco. Inizierà una nuova epoca. Sarà uno spartiacque tra quello che è stato prima, lo sforzo per riuscire a produrre l’energia che serve a sostenere lo sviluppo, e quello che sarà dopo, cioè un’energia a costo modesto e disponibile per chiunque. Non dimentichiamo che il problema non è soltanto, o addirittura soprattutto, dei paesi avanzati; sono i paesi in via di sviluppo ad aver bisogno di tante risorse, la prima delle quali è assolutamente l’energia. Avere energia a disposizione, a basso costo, sarebbe l’uovo di Colombo: sarebbe la soluzione dei problemi politici, sociali e di approvvigionamento energetico che in questo periodo sappiamo essere così critici.

A livello filosofico non le sembra che avere a disposizione energia a volontà vada contro la spinta che abbiamo adesso, anche sull’onda del bisogno, a risparmiare energia, fare solo il necessario e non il superfluo?

Dipende ovviamente da come si utilizza quest’energia. È un po’ come l’acqua: ce n’è tanta, i due terzi del pianeta ne sono ricoperti, ma ci sono zone che ne soffrono la mancanza: la siccità; o addirittura non hanno neanche acqua potabile sufficiente per svolgere le funzioni fisiologiche. Chiaramente ci vuole sempre un governo delle risorse; ma un conto è avere tanta energia a disposizione e distribuirla, altro non averne e quindi essere costretti a razionarla.

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