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Salvamare: cambiare la cultura della pesca da “prelievo” a “gestione”

La nuova legge “Salvamare” permette ai pescatori di riportare a terra i rifiuti pescati; ma per risanare l’ecosistema marino occorre salvare piante e animali da overfishing e pesca illegale. L’agronomo Guido Beltrami illustra un progetto pilota per barriere anti erosione e anti strascico avviato con il Comune di Cefalù.

L’11 maggio il Senato ha approvato la cosiddetta “Legge Salvamare”, portando a conclusione l’iter di una proposta presentata dall’ex ministro dell’Ambiente Costa circa quattro anni fa, e da allora attesa da tutti gli ambientalisti come un punto di svolta per la salvaguardia dei nostri mari. Con la nuova norma innanzitutto si mette fine ad un assurdo logico: fino ad oggi i pescatori erano obbligati a ributtare in mare tutti i rifiuti tirati su con le reti. Tenerli a bordo infatti li esponeva addirittura al rischio di una denuncia penale, per “trasporto illegale di rifiuti”. Oggi invece non solo i pescatori possono riportare a terra l’immondizia pescata, ma sono invitati a farlo. Le capitanerie di porto dovranno attrezzare per questo servizio delle isole ecologiche: aree dedicate alla raccolta differenziata e allo smaltimento dei rifiuti provenienti dal mare. La legge prevede questa possibilità non solo per i lavoratori del mare ma anche per chi conduce imbarcazioni da diporto, che possano accidentalmente pescare rifiuti marini, come reti e lenze da pesca sommerse, magari tramite l’ancora o in altre circostanze casuali. Questo provvedimento riguarda non solo il mare, ma anche fiumi, laghi e lagune. Un’altra parte del testo approvato prevede sia l’organizzazione di campagne di pulizia mirate a risanare gli ecosistemi acquatici (che è l’obiettivo principale della legge) sia il lancio di campagne di sensibilizzazione dirette ai naviganti, per fare in modo che prendano a cuore il problema e siano informati su come e dove conferire i rifiuti raccolti.

Il problema del marine litter, i rifiuti galleggianti o sommersi, è una delle più grandi emergenze ambientali del pianeta: secondo un rapporto recente del WWF, nel solo Mediterraneo finiscono ogni anno 570.000 tonnellate di plastica: come se ogni minuto venissero gettate in mare 34.000 mila bottigliette. Non saranno però i pescatori da soli a risolvere il problema dei rifiuti in mare. Com’è intuibile, per il 95% si tratta di plastica e gran parte arriva al mare dai fiumi: il solo Po scarica in mare 1350 tonnellate ogni anno. Uno studio di Legambiente ha stabilito che sulle spiagge si depositano più di 800 rifiuti ogni cento metri: circa 8 rifiuti per ogni passo fatto sulla spiaggia. Per la maggior parte sono frammenti di plastica tra i 2 e i 50cm; e le responsabilità individuali sono lampanti: la seconda tipologia di rifiuto sulle spiagge sono i mozziconi di sigaretta.

L’altro problema critico che minaccia gli ecosistemi marini è l’impoverimento della varietà e della quantità di pesci, decimati dalla pesca eccessiva, l’overfishing, ed illegale. Secondo il WWF, il 30% delle riserve naturali di pesce è sovrasfruttato: si pesca oltre la capacità delle specie marine di rigenerarsi. A questo va aggiunto un altro 60% sfruttato ai limiti dell’insostenibilità. La pesca a strascico com’è noto non solo tira a bordo tutto quello che trova, senza distinguere tra commestibile o meno, ma raschia i fondali sradicando le piante sottomarine e arando il fondo. Ci sono dei metodi per dissuadere i pescatori da questa pratica illegale e distruttiva. Uno di questi è attualmente oggetto del Progetto Poseidone, un intervento pilota promosso dal Comune di Cefalù. Si tratta della posa sottomarina di barriere e ganci particolari che, da una parte impediscono l’opera distruttiva delle reti a strascico, stracciandole, dall’altra fermano l’erosione dei fondali, smuovendo i nutrienti e favorendo il ripopolamento di piante e animali marini.

Di seguito la versione integrale dell’intervista a GUIDO BELTRAMI, agronomo con specializzazione in acquacoltura, esperto di progetti di tutela e ripopolamento degli ambienti marini costieri, trasmessa nella rubrica settimanale di Earth Day Italia “Ecosistema”, ospitata nel programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia.

Beltrami, può presentarci gli scopi e le modalità di questo “Progetto Poseidone” che avete avviato con il Comune di Cefalù?

Il Progetto Poseidone nasce dalla sensibilità del Comune di Cefalù e del suo Assessore all’Ambiente, e dal Gruppo di Azione Costiera FLAG Golfo di Termini Imerese (un gruppo consortile tra enti pubblici e soggetti privati, nda.); ed è proiettato verso il mondo del mare e soprattutto della pesca. È un piccolo esempio di come si possa cercare di aiutare il mare. In questi ultimi anni il mare ha subito un depauperamento continuo, con la perdita della biodiversità accelerata da fenomeni legati ai cambiamenti climatici e all’introduzione di specie aliene. Gli scopi di questo progetto sono due.

Il primo: introdurre delle strutture particolari in grado di creare delle catene trofiche stabili. Favorire quindi la rinaturalizzazione con il ritorno delle specie ormai scomparse che vengono protette; facilitare la ovo-deposizione e la protezione dei giovanili; e favorire una rinaturalizzazione di tutto l’areale interessato. Queste strutture sono moduli prodotti in Italia, dall’azienda Tecnoreef. È un sistema molto semplice e componibile, formato da piastre che permettono di creare strutture in forma e dimensioni diverse. Io ho girato il mondo per questo tipo di attività dal Medio Oriente all’Africa all’Asia, e posso dire che queste strutture hanno la peculiarità unica di creare un leggero fenomeno di upwelling: una risalita della corrente verso l’alto, con la possibilità di trasportare i nutrienti presenti sul fondo, non utilizzati se non da pochissime specie. Questi rappresentano un alimento fondamentale per le specie foraggio, come le sardine e le acciughe, che a loro volta innestano un richiamo di specie molto importanti come la ricciola e tante altre. In un progetto realizzato nel 2010 abbiamo potuto notare che il richiamo, il rafforzamento delle specie autoctone, tipiche del nostro areale, permette di allontanare specie aliene come il pesce serra che svolgono una funzione molto negativa sul nostro ambiente. Qualcosa che è successo in acque dolci, ad esempio col pesce siluro nel Po, dove la sua presenza ha di fatto eliminato dei segmenti della catena alimentare tipici del nostro fiume.  Quindi questa è un’azione molto importante e fondamentale.

La seconda azione è la possibilità di immergere dei dissuasori molto particolari, già utilizzati anche in aree marine protette, che hanno dato ottimi risultati.  Essendo formati da rampini tendono a rompere, strappare, le reti (a strascico, nda.) senza creare danni all’imbarcazione. Lo scopo è dissuadere chi commette atti illeciti pescando entro le tre miglia [dalla costa] e a una profondità superiore ai 50 metri: i limiti previsti per legge in questi areali fondamentali per la riproduzione, la rinaturalizzazione e lo sviluppo della fauna. Ricordiamo che in Italia la quantità di pescato è andata continuamente a diminuire fino a perdere negli ultimi dieci il 40%. Vuol dire che i nostri mari si stanno impoverendo al punto tale che, nonostante i miglioramenti di sistemi di pesca e imbarcazioni, il pescato è sempre meno.

A questo proposito, in fase di preparazione di questa intervista, lei mi ha fatto un interessante paragone su come di solito vediamo l’attività di pesca e come forse dovremmo guardare a questa attività, soprattutto per non perdere quello che ancora abbiamo e che dobbiamo preservare.

Io sono un agronomo, e quindi ho un modo di ragionare terra-terra… o mare-mare in questo caso. Chi vive il mondo della pesca e del mare si è accorto che il pescatore, finora, è colui che preleva e porta via; non gli interessa se nel portar via distrugge. Un paragone efficace potrebbe essere una miniera: noi la utilizziamo finché non finisce; quando non rende più nulla viene utilizzata a volte come discarica. Quindi abbiamo distrutto e annientato quello che poteva essere un modo di vivere, di lavorare, di fare. Per il mare è la stessa cosa: lo stiamo pian piano riducendo ai minimi termini. Dobbiamo cercare di cambiare mentalità e passare da un “prelievo” a una “gestione”. Queste strutture che mettiamo [sott’acqua] rappresentano il primo passo per mostrare ai pescatori che il mare può essere gestito; che la pesca deve essere sostenibile; che il sistema di pesca deve essere ragionato. Il mare è come la terra: non possiamo cogliere un frutto quando è verde; lo cogliamo un quando è maturo. Spero che in futuro ci sia uniformità nell’intenzione, nella volontà di ragionare su come e quando pescare, in base al tipo di pesce. È inutile pescare quando l’animale deve riprodursi. Dobbiamo ragionare attraverso dei protocolli; creare dei manuali per una corretta gestione del mare come avviene sulla terra. Queste strutture sono il primo passo su come ragionarci.

Quali sono i mari che abbiamo impoverito di più sul pianeta?

Io ho frequentato e visitato diversi paesi, anche per lavoro; mi sono accorto che i più depauperati purtroppo sono i paesi africani, dove imbarcazioni coreane, giapponesi e anche cinesi hanno fatto man bassa di tutto quello che c’era. Ad esempio il golfo di Guinea a mio avviso ha subito forti pressioni. Spesso si parla di immigrazione ma [non si considera che] è dovuta al fatto che bisognerebbe aiutare [qui paesi] in una corretta gestione [delle risorse marine]. Diciamo che è un po’ presto: dobbiamo prima aiutare noi stessi, ma noi abbiamo capito quello che si può fare attraverso questo tipo di azioni [di tutela]. Infatti nei prossimi FEAMPA (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, nda.), che sono lo strumento europeo per il mare, la prima misura è rappresentata dalla biodiversità: dal ripristinare e favorire lo sviluppo della biodiversità tipica del nostro mare. Bisognerebbe fare la stessa cosa anche nei mari africani, creando un ponte di solidarietà portando anche là i nostri sviluppi, traguardi e risultati: con poco potremmo fare veramente tanto.  Questo è un auspicio e una speranza che si vada in questa direzione, perché noi adesso cominciamo a conoscere il mare e ad avere i primi strumenti idonei; e potremmo passarli a loro con una collaborazione vere e profonda Ho lavorato molto alla cooperazione internazionale negli anni d’oro, e credo che, vista in quest’ottica, sia non solo importante ma auspicabile.

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