Ecosistema

Quanta Amazzonia può ancora bruciare prima che la catastrofe sia definitiva?

Giorgio Vacchiano parla delle cause e dei danni degli incendi amazzonici, e dei “super poteri” degli alberi: rallentare le alluvioni, abbassare le temperature torride, e far aumentare il rendimento scolastico e quello dei campi agricoli.

Domenica prossima si chiuderà il Sinodo dei Vescovi convocato da papa Francesco per discutere sul tema: “Amazzonia: Nuovi Cammini per la Chiesa e per una Ecologia Integrale”. Nelle nostre interviste di realizzate durante il periodo del Sinodo, abbiamo parlato di Amazzonia sia dal punto di vista del ruolo sociale della Chiesa, sia da quello dei diritti popoli indigeni. Con Giorgio Vacchiano, ricercatore del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano affrontiamo il tema nel suo aspetto più legato alla tutela dell’ambiente: lo stato di conservazione della foresta dopo i vasti incendi degli ultimi mesi.

Parliamo degli incendi amazzonici. Che cosa è veramente successo quest’anno ad agosto? C’è stato un grande allarme mediatico ma qual è la realtà? È successo qualcosa di molto diverso dagli anni precedenti?

Sì, ma non per quanto riguarda gli incendi, che purtroppo ci sono stati anche in altri anni, soprattutto quelli caratterizzati da forti siccità. Ciò ha fatto preoccupare molte persone, e anche molti scienziati nel mondo è che questo, invece, non è stato un anno particolarmente secco: non si è verificato neanche il fenomeno di “El Ninho”, la perturbazione che periodicamente riscalda le acque dell’Oceano Pacifico, portando appunto grande siccità nelle zone dell’America Meridionale e in altre parti del mondo.

Il numero di incendi è stato del 30%, e in alcune regioni fino all’80% superiore, all’anno scorso; ma se allarghiamo il nostro sguardo agli ultimi dieci anni vediamo che non è stato un anno record. Purtroppo è stato invece un anno record per la deforestazione, cioè per la scomparsa di foresta che viene sostituita da altri usi del suolo: soprattutto dall’apertura di nuovi campi per le colture, la soia soprattutto, oppure per aprire pascoli al bestiame. La deforestazione, che in Brasile stava calando dai livelli degli anni ’80 e ’90, quando era veramente molto preoccupante, negli ultimi due o tre anni ha ricominciato a salire e quest’anno, probabilmente per la prima volta in un decennio, supererà i 10.000 chilometri quadrati.

Gli incendi sono solo un sintomo di questa deforestazione: le fiamme sono uno dei modi, spesso non l’unico, con cui la deforestazione viene portata avanti. Spesso l’inizio della deforestazione è invece causato da chi va a prelevare essenze legnose pregiate, aprendo per la prima volta una strada nella foresta. Questa strada viene poi utilizzata da altre persone che hanno altri interessi: appunto vogliono eliminare la vegetazione per aprire un campo, o magari per aprire un’attività estrattiva di sostanze minerarie. Il fuoco è solo l’ultimo passaggio di questa catena, per eliminare gli ultimi residui.

Ciò che possiamo dire (degli incendi di quest’anno, nda.) è che sicuramente i fuochi sono stati di origine umana. Ce lo confermano le foto satellitari che li mostrano al confine tra la foresta e le aree già deforestate in passato, ossia su quello che chiamiamo il “fronte attivo” della deforestazione. Questi fuochi sono comunque molto pericolosi anche per la foresta stessa. Nonostante si tratti di fiamme spesso relativamente basse, che non riescono ad attaccare le chiome degli alberi, il suolo della foresta tropicale è così delicato e così povero di sostanze nutritive che anche un fuoco molto basso rischia di consumarle; e quindi di impedire agli alberi che eventualmente rimanessero di ricevere il nutrimento per gli anni a venire.

Insomma la deforestazione, sia portata avanti col fuoco sia con altre tecniche, sta di nuovo aumentando. È un problema molto grande e ci fa temere sia per il futuro di tutto l’ecosistema amazzonico, che ha una soglia ben precisa al di sotto della quale non è più in grado di auto sostenersi e mantenersi; sia per le popolazioni indigene che abitano in queste zone; sia per le emissioni di CO2 causate dalla deforestazione.

È veramente così importante l’Amazzonia? È il polmone del mondo, com’è ormai luogo comune dire, o è una questione interna al Sud America, come il presidente del Brasile Bolsonaro ha detto recentemente all’ONU, negando che la foresta sia un patrimonio dell’umanità?

Purtroppo temo che Bolsonaro non sia informato sugli ultimi risultati della Scienza. Per esempio: come è legata la foresta amazzonica al resto del mondo? Questa foresta contiene così tanti alberi che l’acqua che evapora dalle foglie forma dei veri e propri fiumi atmosferici: fiumi di vapore acqueo ovviamente, non di acqua liquida, che però contengono una quantità d’acqua maggiore rispetto allo stesso Rio delle Amazzoni. I veri fiumi dell’Amazzonia sono quindi in cielo, e sono formati proprio dall’evaporazione delle foglie. Questi fiumi d’acqua non si fermano sull’Amazzonia, a cui ovviamente portano pioggia e fertilità, ma proseguono il loro cammino anche per distanze di moltissimi chilometri. Per esempio garantiscono la fertilità dei campi di mais degli Stati Uniti centrali, che quindi devono gran parte della loro produttività proprio all’acqua proveniente dall’Amazzonia. Ancora non conosciamo bene tutte le diramazioni di questo sistema di connessioni a distanza. È ben possibile che questa foresta abbia un ruolo determinante nel regolare il clima di tutta la Terra, appunto indirizzando le correnti atmosferiche, o anche le correnti oceaniche con l’acqua che proviene invece dei fiumi veri e propri.

Perciò (per la deforestazione, nda.) non si tratta soltanto di danni locali alla biodiversità, alle comunità, alla foresta stessa; ma di una possibile alterazione planetaria, con modi che ancora non conosciamo bene, e che quindi suggerirebbero molta prudenza nel gestire questo ecosistema. Gli scienziati ritengono che ci sia una soglia minima, al di sotto della quale l’Amazzonia viene messa completamente a rischio. Questa soglia è fissata tra il 25 e il 40% di deforestazione: se perderemo tra il 25 e il 40% della foresta originale non ci saranno più abbastanza alberi per produrre l’acqua che alimenta tutto il sistema. Al momento siamo al 17-18% di deforestazione, a partire dagli anni ’70 fino a oggi. Quindi purtroppo non siamo molto lontani da questa soglia, e se la pressione sul sistema continuerà ad aumentare come ha fatto negli ultimi due-tre anni ci arriveremo entro pochi decenni. A quel punto nessuno sa che cosa potrebbe succedere all’Amazzonia. C’è chi dice che potrebbe transitare molto velocemente verso un altro tipo di ecosistema, per esempio una savana, come già era 50-60 milioni di anni fa. A quel punto però l’effetto sul clima globale, anche attraverso l’emissione di tutta la CO2, il carbonio contenuto nei tronchi e nel suolo della foresta amazzonica, avrebbe delle conseguenze davvero preoccupanti.

Questo è il fronte della conservazione e della lotta alla deforestazione. C’è un altro fronte contro la CO2: quello della riforestazione. C’è in Italia un progetto, lanciato dalla Comunità Laudato Sì all’inizio di settembre: “Un albero in più”. L’intento è ovviamente simbolico: un albero per ogni abitante. L’idea è stata sposata dalla comunità scientifica di cui lei fa parte, quella della gestione e degli studi sulle foreste; ma con una premessa da parte vostra: piantare gli alberi giusti nel posto giusto. Quali sono gli alberi giusti, e dove sono i posti giusti?

Nel mondo si stanno effettivamente moltiplicando queste iniziative di riforestazione, o di “afforestazione”, cioè formazione di nuove foreste anche dove non ce ne sono mai state. L’efficacia di queste misure varia, non è sempre uguale a se stessa. Possono essere molto efficaci nei paesi che sono stati soggetti a una pesante deforestazione. Qualche mese fa abbiamo appreso la notizia dell’iniziativa in Etiopia, dove pare che in un giorno siano state piantate addirittura 300-350 milioni di piantine. L’Etiopia è un paese che ha subito una pesantissima deforestazione: dove le foreste residue coprono solo il 2-4% della superficie nazionale, e che quindi ha bisogno di foreste, non soltanto per assorbire CO2 dall’atmosfera ma anche, ad esempio, per lottare contro la desertificazione, trattenere i suoli dalle frane, filtrare l’acqua potabile. Tutte funzioni e benefici che le foreste ci regalano.

In Italia la situazione è diversa. Attualmente abbiamo il 35-36% del territorio coperto da foreste che sono in rapidissima espansione spontanea. Sembrerebbe poco coerente piantare altri alberi, visto che per fortuna siamo in una situazione in cui gli alberi tornano da soli. C’è però una situazione dove il panorama è molto diverso: nelle città e nelle aree peri-urbane. Di fatto in Italia viviamo in due mondi ambientali completamente opposti. Da un lato le aree rurali, di montagna, di campagna, dove appunto le foreste si espandono. Dall’altro le aree di pianura: le aree urbanizzate e peri-urbane, dove invece stiamo continuando a consumare solo fertile, ad impermeabilizzare i suoli con nuove espansioni delle aree urbane asfaltate. Qui rischiano di farsi sentire più immediati effetti del cambiamento climatico: quelli che già oggi sperimentiamo, come le ondate di calore, e le precipitazioni intense e improvvise che causano grandi alluvioni. Si stima che la temperatura nelle città sia già oggi di 2-3 gradi superiore alle aree intorno. Io vengo da una città come Milano che spesso, durante l’autunno, sperimenta problemi di rischio idraulico e idrogeologico.

Ecco: nelle città gli alberi hanno i superpoteri. Per esempio abbassano le temperature tramite l’ombreggiamento e tramite questa funzione di evaporazione, esattamente come avviene in Amazzonia; e trattengono nelle foglie un po’ di acqua piovana, rallentando l’arrivo della pioggia al suolo ed evitando che si formino dei picchi di piena improvvisi. Quindi, se da una parte la proposta della Comunità Laudato Si’ e quelle di tanti paesi nel mondo, partono dall’intenzione di assorbire CO2, in realtà ci sono molti altri benefici che gli alberi piantati in città ci possono dare, anche subito, anche molto prima di dover aspettare che siano cresciuti per assorbire finalmente quella CO2.

C’è un altro progetto molto interessante, soprattutto per la sua dimensione globale: la “Grande Muraglia Verde per le Città”, un progetto annunciato dal Direttore Generale della FAO qualche settimana fa. L’immagine pubblicato sul sito della FAO è molto accattivante: una cintura di foreste che parte dal mar del Giappone, attraversa la Cina, il nord del continente indiano, la penisola araba e tutta l’Africa fino all’Atlantico, lasciandosi a nord i grandi deserti come il Gobi, il Sahara e l’Arabia. In che cosa consiste in realtà questo progetto?

Il progetto è stato annunciato durante l’importantissimo summit sul clima che si è tenuto all’ONU il 23 e 24 di settembre. Quella a cui lei si riferisce probabilmente è un’immagine metaforica: il progetto non si pone l’obiettivo di costruire “fisicamente” una continuità di alberi dal Giappone fino all’Arabia e all’Africa. L’obiettivo è invece di coinvolgere il maggior numero possibile di città del mondo affinché tutte, all’interno di uno stesso programma e su basi scientifiche, aumentino la quantità degli alberi presenti al loro interno e nei loro dintorni. Come dicevamo prima, gli alberi in città hanno dei superpoteri: abbassano le temperature; abbassano il rischio idraulico; aumentano il benessere: ci sono molte ricerche scientifiche che mostrano correlazioni interessantissime tra il benessere psicofisico, e addirittura la performance scolastica degli adolescenti, e la quantità di verde di verde che esiste in una città. Ci sono grandissimi benefici anche per il risparmio di spesa pubblica, se pensiamo agli effetti sulla salute. Questo progetto si propone quindi di coinvolgere tante città, con culture diverse e con climi molto diversi; quindi ognuna avrà il suo modo di rispondere a questa sfida, ma tutte sono chiamate a cambiare il loro modello urbanistico. Ovvero: non pensare più agli alberi come a una struttura residuale o decorativa, da relegare agli angoli poco utilizzati delle città; ma integrarli nel loro piano urbanistico; farne una vera e propria infrastruttura verde, che ha delle funzioni precise e anche un preciso valore economico, e che ci porta dei benefici che possiamo conoscere e pianificare.­­ Se si considera che tra pochi anni il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città, in questo modo noi andiamo a portare benefici a questo 70%, rendendo le città posti più vivibili, più piacevoli e meno inquinati, perché gli alberi assorbono anche il particolato e tanti inquinanti come i metalli pesanti.

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