Emanuele Bompan
Cambiamento Climatico Ecosistema Interviste

Bompan: la COP è un grande gioco, ogni punto segnato è importante

Dalle timidezze di Usa ed Europa ai traguardi raggiunti per la finanza climatica; dai grandi inquinatori che non rinunciano al carbone all’approvazione dei meccanismi di trasparenza… il Direttore di Materia Rinnovabile commenta i risultati della “fiera” della COP di Glasgow.

La COP26 di Glasgow ha chiuso i battenti, e come succede su quasi ogni tavolo negoziale alcune questioni sono state definite, altre rimandate; alcuni accordi sottoscritti, altri lasciati nelle bozze; alcuni convitati si sono alzati soddisfatti, altri delusi. Di solito si fa ricorso alla retorica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto per cercare di decidere se l’annuale Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico sia stata epocale, come la ventunesima di Parigi del 2015, o interlocutoria (per non dire inconcludente) come quasi tutte le altre ventiquattro. Un modo meno manicheo di analizzare la questione lo propone Emanuele Bompan: contare i punti incassati come al termine di una partita di calcio, in attesa del match successivo e con lo sguardo alla classifica finale. Il Direttore di Materia Rinnovabile, tra i più informati giornalisti ambientali italiani, ha seguito dal vivo il negoziato scozzese, e ha condiviso in quest’intervista alcune considerazioni a caldo, all’indomani della firma del documento finale.
Di seguito la versione integrale dell’intervista trasmessa nella rubrica Ecosistema di Earth Day Italia, nel programma “Il Mondo alla Radio” di Radio Vaticana Italia.

I commenti alla COP26 sembrano convergere sul famoso bicchiere che, a seconda dell’interlocutore, può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Tu come giudichi questa consesso? Quali sono stati i migliori risultati raggiunti e i peggiori risultati mancati?

Penso che sia sbagliata la metrica del bicchiere. Io lo vedo più come un grande gioco, dove anche un punto segnato è un risultato importante. Chiaramente, tutti i goal mancati sono risultati che dovranno essere ottenuti nel più breve tempo possibile. Un negoziato, un sistema, che va avanti da ventisei anni non può essere definito meramente un successo o un fallimento.

È sicuramente negativo non avere una data per l’eliminazione del carbone: sarebbe stato un grande risultato. Non sono stati raggiunti neanche dei 100 miliardi di dollari l’anno [di fondi per la conversione ecologica dei paesi in via di sviluppo]: un meccanismo ideato addirittura nel 2009, che vedrà il completamento solo nel 2023 e la chiusura nel 2025. Per di più non è stata neanche decisa una road map post 2025 per movimentare questi soldi, fondamentali per i paesi meno sviluppati, per la decarbonizzazione e la definizione delle azioni di riduzione delle emissioni.

Tra le buone notizie ci i punti raggiunti e conclusi, che sono degli avanzamenti significativi: la COP di Madrid (2019, nda.) puntava tutto sulla chiusura dell’Articolo 6 (dell’Accordo di Parigi che riguarda il mercato delle emissioni di carbonio, nda) e sui meccanismi di trasparenza. Forse la stampa l’ha dimenticato ma questo punto è stato concluso, e bene, alla COP di Glasgow: finalmente ci saranno delle tabelle condivise e coordinate tra tutti gli stati per rendicontare in maniera chiara e trasparente gli obiettivi proposti. Senza questi meccanismi si potrebbero proporre anche le cose più ambiziose del mondo, ma se poi non venissero rendicontate in modo trasparente sarebbero solo storie che siamo tutti bravi a raccontare.

Seconda buona notizia: finalmente viene creato un meccanismo di finanza climatica globale, con un rilancio dei mercati del carbonio (e anche meccanismi non di mercato) che sicuramente vanno a correggere tante storture esistenti nei vecchi mercati delle emissioni. Poi, finalmente, c’è un calendario condiviso tra tutti i paesi per gli NDC (Nationally Determined Commitments, gli impegni presi dai singoli stati, nda.): quando e come aggiornare i propri obiettivi di decarbonizzazione. Dal punto di vista politico i risultati sono l’aver fissato l’obiettivo di riduzione del 45% [di emissioni di CO2] al 2030, e anche la prima menzione del “fase out” (la rinuncia) ai sussidi alle fonti fossili. Tra l’altro il ministro Cingolani, in un’intervista che mi ha rilasciato, ha proposto e ribadito l’interesse dell’Italia ad iniziare ad eliminarli, a partire dal prossimo. E ancora: il raddoppio della finanza per l’adattamento (i fondi internazionali messi a disposizione per l’adattamento dei paesi al cambiamento climatico, nda.), che sicuramente è un buon risultato.

Un grande dramma per i paesi meno sviluppati e vulnerabili, è invece la mancata creazione di una struttura per i Loss&Damage: una sorta di assicurazione per quando quei paesi vengono colpiti da catastrofi come inondazioni o siccità prolungate, che quindi potrebbero ricevere compensazioni per i danni. La discussione è progredita, ma purtroppo siamo ancora all’inizio; cominceremo a vedere risultati alla COP27, se non addirittura alla COP28.

Nel racconto un po’ superficiale del post COP, Cina e India stanno passando per essere i paesi che frenano il cambiamento, a causa del mancato accordo sullo stop definitivo al carbone e al finanziamento delle fonti fossili. È così? Sono veramente paesi “cinici”? O dal loro punto di vista hanno fatto il massimo?

Questa è una lettura assolutamente eurocentrica, che nasconde l’incapacità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di avanzare sul tema del sostegno economico ai paesi più vulnerabili, e ai meccanismi di trasferimento tecnologico. Sono quei meccanismi che dovrebbero essere responsabilità dei paesi più industrializzati, perché storicamente sono i responsabili delle emissioni di CO2 in atmosfera. Sicuramente India e Cina avrebbero potuto essere più coraggiosi ed evitare la richiesta di cambiare nel testo del documento “fase out” in “fase down”, quindi “eliminazione” in “riduzione”. Occorre però capire che per questo accordo ognuno ha dovuto cedere qualcosa sul tavolo, e quindi la colpa è un po’ condivisa tra tutti. Ovviamente i giornali hanno bisogno di titoli, ma in questo caso l’Europa, ma soprattutto gli Stati Uniti, sicuramente avrebbero potuto fare di più.

Gli Stati Uniti sono arrivati al tavolo di Glasgow assolutamente a mani vuote, a parte il piccolo pacchetto di Biden da 555 miliardi di investimenti in infrastrutture sostenibili, ma senza una legge, senza obiettivi veramente vincolanti: soltanto una serie di atti esecutivi del Presidente che hanno un peso, ma non è come avere una legge legata al clima approvata dal Congresso. Questa è una cosa che pesa tantissimo. L’Europa arrivava con “Fit fo 55” (l’impegno a ridurre entro il 2030 le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990, nda.) che sicuramente è più forte, anche con importanti aumenti agli impegni finanziari; ma prendiamo anche solo l’Italia: per il fondo da 100 miliardi di dollari l’anno, metteva 500 milioni annui. Draghi ha avuto l’ambizione di portarli a 1,5 miliardi, ma l’obiettivo sarebbe almeno di raddoppiare questa cifra, se non di arrivare almeno a 3 o 4 miliardi di dollari l’anno.

Anche queste sono carte del fallimento: il negoziato è un meccanismo molto complesso che magari non tutti i giornalisti sanno sempre seguire. Bisogna vedere tutte le carte e tutte le pedine di questo gioco per capirne veramente la geometria. Sarà sicuramente interessante leggere le analisi a freddo, nelle prossime settimane. Senza il sensazionalismo delle notizie, servirà una buona analisi di quanto fatto da tutti i paesi. Anche tornare su quanto fatto dall’Italia che, ricordo, era co-host insieme al Regno Unito e che tutto sommato invece ha giocato un ruolo di secondo piano. Qualche giornale ha addirittura scritto che Cingolani avrebbe aiutato il compromesso con la Cina. In realtà L’Italia ha messo poche cose sul tavolo; se non qualche iniziativa, qualche proposta, spesso molto molto molto timida.

Tu sei stato a Glasgow per buona parte del negoziato. Che atmosfera si vive in queste occasioni? Chi partecipa alle COP? Ci sono gli attivisti, le associazioni, i governi, le imprese, i leader… Chi sono veramente quelli che “tirano” questi negoziati, quelli che si impegnano di più? e chi di meno?

Ci sono tre mondi in questi negoziati. Da un lato il mondo della società civile, degli attivisti che dentro e fuori le aree negoziali lavorano attivamente per portare istanze, in alcuni casi anche poco menzionate: i diritti degli indigeni; le nature-based solutions (il ripristino degli ecosistemi naturali, l’uso del verde per assorbire CO”, ecc. nda.); o ancora il tema dell’acqua che quest’anno ha iniziato a fare capolino a COP26. Poi c’è il mondo dei negoziatori, dei tecnici, dei giornalisti che seguono queste cose: osservatori con grandi competenze tecniche che lavorano direttamente per capire come si evolve giorno per giorno, ora per ora, testo per testo, aggettivo per aggettivo, il lavoro negoziale portato avanti da tanti gruppi di lavoro. Non è unico calderone. Ci sono numerosi canali che portano avanti gli elementi negoziali: chi lavora sulla finanza, chi sulla documentazione; chi sul quadro della Conferenza di Parigi. È molto complesso.

Il terzo mondo è quello del business e dei portatori di interessi in generale, che vengono sicuramente per parlare e capire, ma anche molto per farsi vedere. C’è una parte della COP che sta diventando un po’ un “carrozzone” di eventi, di incontri, sicuramente legati al tema, ma che spesso servono anche per mettersi in mostra o per raccontare il proprio lavoro: istituti di ricerca o iniziative private di aziende, che servono, anche giustamente, per potare interessi rilevanti. Ad esempio quest’anno c’è stato un bel lavoro sul tema dell’economia circolare che, avendo un peso nella decarbonizzazione, si spera porterà un miglioramento. È un mondo molto variegato, forse diventato un po’ troppo grosso. Secondo me alle COP servirebbe diminuire il numero dei partecipanti per ridurre il “rumore” e concentrarsi veramente sugli elementi più importanti. Quindi più lavoro concreto, meno fiera e ribalta per persone che non sempre sono competenti.

Durante la COP La Repubblica ha pubblicato una tua inchiesta sui fiumi del pianeta. A me sembra che in questi anni si parli molto di clima, di surriscaldamento della Terra, di come peggiorano le condizioni climatiche, ma poco di acqua. Sei d’accordo? Soprattutto: alla COP si parla di acqua? Potrebbe essere un’emergenza molto più pressante.

L’acqua è un elemento trasversale, che quindi va a toccare soprattutto i temi dell’adattamento. Il clima non si manifesta solo attraverso le temperature, ma molto attraverso la modifica dei cicli dell’acqua: i fenomeni meteo estremi, con piogge intense, alluvioni; oppure con l’assenza di essi: le siccità prolungate che danneggiano in maniera rilevante i sistemi agricoli o addirittura toccano il settore elettrico e quello industriale, quando l’assenza diventa veramente importante. In questo reportage raccontiamo come alcuni grandissimi fiumi hanno vissuto momenti di secca totale anche a causa del cambiamento climatico: il Colorado, il Paranà, il nostro Po. Poi ci sono sicuramente cause antropiche: eccesso di prelievo idrico; infrastrutture non ben ideate e strutturate. Penso alle mega dighe su alcuni corsi d’acqua, come il Mekong, che ne hanno ridotto la portata. In questi casi il clima pesa molto nella riduzione dei fenomeni idrici. Io penso che il grosso della discussione sull’acqua si deve legare al tema dell’adattamento, che ha ripreso una grande centralità durante la COP di Glasgow, e che sicuramente alla COP africana del 2022, in Egitto, dovrà diventare ancora più argomento centrale; perché l’Africa è uno dei territori che meno hanno contribuito al cambiamento climatico ma purtroppo sono più esposti agli effetti più violenti, soprattutto legati alla scarsità idrica. Non solo l’Africa: ovviamente anche la Cina e, in particolar modo, l’India – i paesi che hanno sicuramente puntato i piedi in questa COP – si trovano in situazione di gravissimo stress idrico già in questi anni. Quindi sì, l’augurio è che si parli sempre più di adattamento legandolo ai temi dell’acqua.

Per l’emergenza del Covid, le sinergie internazionali, scientifiche, e anche finanziarie, sono state trovate per intervenire pesantemente, subito, e a livello globale. Per la crisi climatica e la transizione ecologica siamo ancora alle trattative, sebbene in stato avanzato. Secondo te, chi decide ha compreso davvero l’urgenza? Oppure hanno ragione loro e abbiamo tempo per fare le cose con gradualità?

Sicuramente il mondo economico-finanziario sta avendo una grande accelerazione sui temi della sostenibilità. In un’intervista uscita proprio oggi su La Repubblica, Frédéric Samama, un grande finanziere che da sempre si occupa di temi climatici, spiega come il settore finanziario abbia compreso l’urgenza del tema. È il momento di fare seriamente, mettendo davvero a terra prodotti e strategie innovative; finanziando progetti e strategie che possano avere un vero impatto nella decarbonizzazione e nei processi di adattamento. Penso che da qui al 2025 vedremo una crescente accelerazione di tutti i processi. Gli attivisti fanno giustamente pressione dicendo “blablabla” e che a Glasgow non si è fatto nulla. Fanno bene a continuare a tenere fortissima la pressione, per far sì che questa spinta acceleri sempre di più; ma chi come me segue queste cose dal 2009, vede che la spinta è già partita.

Non ci resta che fare tutti la nostra parte per diventare acceleratori e richiedere sempre di più l’intervento dal nostro governo. Ogni stato fa riferimento al proprio governo; quindi intanto facciamo bene i compiti qui in Italia: chiediamo al MITE di accelerare veramente sulla transizione ecologica; mettiamo in ginocchio il settore dell’oil&gas, affinché smetta di investire inutilmente in combustibili fossili; e aiutiamo invece i lavoratori di questo settore a formarsi per diventare operatori in nuove aree di intervento dove società come ENI ed altre già stanno investendo: certamente le energie rinnovabili; ma anche tanta economia circolare, dove l’Italia può sicuramente giocare un ruolo fondamentale.

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