Ecologia integrale Interviste Pianeta

Chi protegge la Natura?

Dato per scontato che le aree naturali rimaste sul pianeta debbano essere tutelate contro lo sfruttamento delle risorse e l’inquinamento, si apre il dibattito sul “come” farlo. Le attuali politiche internazionali mirano a proteggere per legge il 30% della superficie terrestre entro il 2030. Ma quale futuro attende le popolazioni indigene che vivono da millenni su gran parte di quei territori, soprattutto nel sud del mondo? Popoli originari, incontattati e comunità rurali saranno tutelati come i veri custodi della preziosa biodiversità, o verranno scacciati da quelle terre in nome della conservazione? Le posizioni contrapposte emergono da due convegni che si tengono a Marsiglia in questi giorni; le prime risposte arriveranno dalla COP26 di novembre. Francesca Casella, direttrice italiana di Survival International ci riferisce le ragioni delle popolazioni indigene.

Dal 3 all’11 settembre Marsiglia ospita il Congresso dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura. L’IUCN è una ONG internazionale ai cui tavoli partecipano numerose e importanti istituzioni governative, scientifiche e associazioni ambientaliste. Tra quelle italiane ci sono ad esempio l’ISPRA, il CNR, il Ministero della Transizione Ecologica, il WWF, Legambiente, la LIPU e Federparchi. Lo scopo dichiarato dell’evento, a cui partecipano centinaia di relatori e migliaia di delegati da tutto il mondo, è di fornire “raccomandazioni e indicazioni operative per la conservazione della natura nel prossimo decennio” ad istituzioni, governi e decisori, soprattutto in vista della COP26 del prossimo novembre.  I lavori del congresso prevedono sessioni, forum e seminari sui più disparati aspetti della conservazione, divisi in sette macro temi: “territorio; acqua e risorse idriche; oceani; mutamenti climatici; diritti e governance; sistemi economici e finanziari; conoscenza, innovazione e tecnologie”. Lo slogan del congresso, “Per la natura, per tutti noi”, è promettente ma evidentemente non basta a convincere chi da anni critica il modello di conservazione imperante in questo momento storico. Nella stessa Marsiglia si è infatti appena concluso “Our land! Our nature” (“La nostra terra, la nostra natura”): “contro” evento che già dal titolo evidenzia un punto di vista diverso e contrastante di cui abbiamo riferito in questo articolo.

Francesca Casella – Survival International

Il nodo della contestazione è l’obiettivo di tutelare il 30% della superficie terrestre con misure di tutela ambientale. Proposta lanciata dall’IUCN e condivisa da diversi grandi decisori. Biden ad esempio, ha già lanciato iniziative per arrivare ad estendere a quella percentuale di territorio statunitense la tutela delle leggi ambientali federali. Anche il Parlamento Europeo ha deliberato un provvedimento che vincola gli stati membri a raggiungere lo stesso obiettivo entro il 2030. Il problema è che queste misure possono trasformarsi in una condanna allo sfratto e alla diaspora per centinaia di popolazioni indigene in diverse aree ancora naturali del pianeta. Un dilemma che riguarda poco realtà come Stati Uniti e UE, ma che avrebbe conseguenze ben più vaste in Aisa, Africa e Sud America: popoli originari, addirittura incontattati, o anche comunità rurali tradizionali, sarebbero costretti, in nome della conservazione, ad abbandonare le loro terre ancestrali e quelle attività (caccia, pesca, agricoltura, allevamento) che finora hanno assicurato loro la sussistenza.

Per comprendere le ragioni della protesta e capire se c’è spazio per dei correttivi e per un dialogo costruttivo tra le posizioni “ambientaliste” e chi da voce ai popoli indigeni, abbiamo intervistato Francesca Casella: direttrice della sede italiana di Survival International, promotore di “Our land! Our Nature”.

Quali sono le regioni del mondo che, poste sotto rigida tutela ambientale, sarebbero forzatamente spopolate di popolazioni residenti?

Uno studio della Rights and Resources Initiative dice che, tra le zone d’importanza ecologica che con più probabilità verranno proposte per la conversione in Aree Protette, ci sono prima di tutto i territori indigeni, a conferma che saranno proprio i popoli indigeni e altre comunità locali i primi e i più colpiti da questa proposta. Ed è ovvio: l’80% della biodiversità terrestre si trova proprio nei loro territori e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità del pianeta sono terra indigena. Lo ha spiegato con forza durante il nostro congresso “Our land Our nature” anche Mordecai Ogada, esperto conservazionista keniota, che ha detto: “Quando si parla di aumentare le Aree Protette, sappiamo che questa espansione è mirata sull’Africa. Non siamo di fronte all’espansione di Regents Park a Londra, per esempio. Queste aree non verranno espanse a Boston o a New York perché non è lì che si trova la mega biodiversità […]. Si tratterà quindi di Africa, Asia e altre regioni, principalmente nel Sud del mondo. Pur non essendo supportata da evidenze scientifiche sulla sua efficacia e sulle sue ragioni, la proposta del 30% potrebbe essere il più grande furto di terra della storia, e si stima potrebbe distruggere la vita di circa 300 milioni di persone senza salvare il pianeta.

Dove è già successo tutto questo, in quali paesi, per quali popolazioni, e con quali conseguenze? 

Survival combatte da oltre 30 anni contro le atrocità commesse nel nome della “conservazione”. Le “Aree Protette” hanno già privato milioni di persone dei loro mezzi di sussistenza sostenibili, delle loro terre e delle loro vite, e la crescente militarizzazione non fa che peggiorare la situazione. La conservazione colonialista, anche nota come “Conservazione-fortezza”, si fonda sul pregiudizio razzista che i popoli indigeni non siano in grado di prendersi cura delle loro terre e degli animali che ci vivono; e sono visti come un “fastidio” da “risolvere”, invece che come esperti della biodiversità locale da rispettare e coinvolgere come alleati fondamentali. Succede così che i popoli indigeni che vivono in questi territori vengano sfrattati, picchiati, torturati, violentati o addirittura uccisi. A farlo sono forze dell’ordine e guardaparco supportati dalle maggiori ONG della conservazione. Ma ben pochi hanno dovuto rispondere alla giustizia di questi loro crimini.
Popoli indigeni come i Baka del bacino del Congo e i Chenchu dell’India ci dicono di considerare la conservazione colonialista come la più grande minaccia che oggi devono affrontare. In India, sono centinaia di migliaia gli indigeni già colpiti e a rischio. Il governo li sta sfrattando illegalmente dalle terre ancestrali trasformate in riserve delle tigri. Eppure, sono proprio loro ad essersi sempre presi cura di questo felino, che venerano, e nella riserva delle tigri in cui una tribù si è vista riconoscere il diritto a restare, il numero delle tigri è aumentato di tre volte rispetto alla media nazionale. “La minaccia più grave per le tigri sono le industrie estrattive – ha spiegato durante il congresso Pranab Doley, attivista indigeno del popolo Mising – Le comunità indigene rurali in India contribuiscono all’esistenza delle tigri. C’è convivenza grazie allo stile di vita della nostra gente.”

Se si tutelassero i popoli originari e le comunità rurali-tradizionali, il programma 30×30 non sarebbe una buona cosa? In teoria, rendere il 30% della Terra area interdetta alla presenza umana, all’agricoltura, allo sfruttamento minerario e all’urbanizzazione, non sarebbe comunque un passo avanti contro la crisi climatica e l’inquinamento?

In primo luogo, chiariamo bene che tra biodiversità e diversità umana c’è una stretta correlazione, e che gli esseri umani e la natura sono inseparabili. Ma aprire una parentesi sul mito dell’esistenza di una natura pura e incontaminata richiederebbe troppo tempo qui. In secondo luogo, le aree protette, così come sono intese oggi, non possono risolvere nessuno di quei problemi, e anzi potrebbero addirittura aggravarli; oltre ad avere conseguenze drammatiche a livello umano. Infatti molte evidenze dimostrano che questo modello di conservazione è fallimentare anche dal punto di vista della protezione ambientale. È paradossale, ma in diverse “Aree Protette” si trovano attività distruttive e inquinanti come: turismo di massa, taglio del legno, produzione di olio di palma, caccia da trofeo, in alcuni casi anche attività minerarie o petrolifere; mentre gli stili di vita sostenibili dei popoli indigeni, e delle comunità locali che le hanno abitate, alimentate e custodite per generazioni, vengono distrutti e criminalizzati. Di garanzie per i popoli indigeni e locali al momento non ce ne sono ed è per questo che stiamo lottando. Lo ha denunciato in modo forte e chiaro anche il Relatore speciale ONU su diritti umani e ambiente (David R. Boyd, nda.) in un suo Policy Brief appena pubblicato, in cui condanna in modo schiacciante i “modesti miglioramenti” al Global Biodiversity Framework post-2020 che “manca ancora di menzionare i diritti umani, non richiede la due diligence sui diritti umani nella pianificazione e nel finanziamento della conservazione, manca di chiedere il riconoscimento dei diritti alla natura dei popoli indigeni e di altri titolari di diritti rurali, e non include alcun obiettivo misurabile per monitorare l’integrazione degli approcci basati sui diritti”.

Avete una proposta alternativa? Forse incaricare proprio queste popolazioni della tutela dell’ambiente?

La soluzione già esiste e funziona! Consiste nel riconoscere e rispettare i diritti dei popoli indigeni alle loro terre, mettendoli al centro della conservazione e delle azioni per il clima e dando priorità alle loro voci nell’impegno comune per risolvere la crisi. È stato dimostrato che, nel salvaguardare la biodiversità, le terre indigene e comunitarie protette legalmente sono anche più efficaci dei parchi nazionali. Il fatto che i conservazionisti non chiedano un massiccio aumento delle terre indigene indica che non aspirano realmente alla soluzione più efficace ed economica. È tempo di finirla con le false soluzioni. Se ad alimentare i cambiamenti climatici sono, sia le emissioni di CO2 e gas serra nell’atmosfera dovute principalmente alla combustione dei combustibili fossili, sia lo sfruttamento delle risorse naturali per profitto e il sovraconsumo crescente trainato dal Nord globale, beh, allora è lì che bisogna agire: su di noi e sui nostri stili di vita! È drammaticamente ingiusto, oltre che del tutto inutile, far pagare il prezzo della crisi attuale a coloro che ne sono meno responsabili e che sono i migliori custodi degli ecosistemi. Vogliamo soluzioni vere e che siano antirazziste, anticoloniali e rispettose della diversità! Stiamo lottando per un’alternativa radicata nei diritti e nella giustizia sociale.

Nel Comitato Italiano dello IUCN ci sono le maggiori associazioni ambientaliste del paese e il Ministero della Transizione Ecologica: che riscontri avete da loro quando sollevate questo problema?

L’Italia ha dichiarato il proprio appoggio all’obiettivo del 30×30 nel quadro della “Coalition of High Ambition for Nature and Peoples” e quest’anno ospiteremo il G20 oltre che la Pre-Cop. Perciò, come paese abbiamo una grande responsabilità. Da tempo abbiamo scritto al Ministro (il cui “fittissimo elenco di impegni di carattere istituzionale già fissati in agenda non hanno ancora permesso di poter calendarizzare una data per un incontro”) e abbiamo inviato una lettera aperta al Presidente del Consiglio Mario Draghi, ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Il contro-congresso “Our land Our Nature” è stato organizzato proprio per influenzare i decisori politici che parteciperanno al congresso IUCN e per contrastare la loro narrativa sulla “espansione delle Aree Protette” scoraggiando l’adozione dell’obiettivo. Le “soluzioni” proposte per arrestare la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico che provengono dalla IUCN e dai suoi associati sono semplicemente ingiuste, inefficaci e false. E molti governi e ONG della conservazione che sono soci IUCN hanno violato per anni i diritti dei popoli indigeni, hanno ignorato le loro voci e l’impatto delle loro politiche e dei loro progetti sulle terre e sulle vite dei popoli indigeni.

Nel documento d’apertura del congresso IUCN si legge “Bringing together civil society, indigenous peoples and states”, non la ritenete una apertura al dialogo su questo tema? Tra i relatori e gli ospiti annunciati sembrano esserci voci che rappresentano anche le popolazioni locali.

Siamo contenti che siano stati invitati alcuni popoli indigeni ma questo non esclude il fatto che tanti indigeni siano comunque esclusi, specialmente le vittime della conservazione. Le voci fuori sistema sono, e sono state, sistematicamente silenziate o ignorate. È a loro che noi stiamo cercando di dare un palcoscenico, e a comunità ed esperti con una visione alternativa della conservazione. Stiamo cercando di porre le basi per una coalizione duratura tra coloro che sono colpiti dalle “Aree Protette”, e le associazioni e i membri della società civile che vogliono realmente cambiare il modo in cui si fa “conservazione”: per i popoli indigeni, per la natura, per tutta l’umanità. La consapevolezza sta crescendo: ad oggi, una dichiarazione che Survival ha redatto insieme a Minority Rights Group e Rainforest Foundation UK, delineando le preoccupazioni e le proposte sul target del 30%, ha già raccolto le adesioni di quasi 250 esperti, accademici e organizzazioni per l’ambiente e i diritti umani.

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