Paolo Picciati - Wikimedia Commons
Interviste Società

Violenza sulle donne: la radice è nella nostra cultura

Stereotipi, tradizioni patriarcali, narrazione distorta dei casi di cronaca: D.i.Re. Donne in Rete Contro la Violenza lancia l’allarme sulla vittimizzazione secondaria delle donne ad opera del contesto sociale, dell’azione dei media e della carenza di formazione della magistratura.

Secondo l’Istat, nel 2020 le chiamate al numero anti violenza 1522 sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019. I dati evidenziano quello che l’istituto definisce un “boom” da fine marzo in poi: il periodo più duro del lockdown (+177/182% da aprile a maggio). Nella metà dei casi le vittime hanno riferito violenze psicologiche; quelle fisiche hanno riguardato il 48% circa delle chiamate. In aumento le richieste d’aiuto delle giovani donne fino a 24 anni (+2%) e delle vittime con più di 55 anni (+4% circa). Per quanto riguarda gli autori delle violenze, nel 2020 è aumentata la percentuale dei familiari (+6% circa) mentre è rimasta stabile la percentuale della responsabilità dei partner (57%). L’Istat ha anche evidenziato l’effetto della pandemia sul fenomeno: dalle analisi risulta che l’8,6% delle violenze riferite nella prima metà del 2020 sono interpretabili come conseguenze della convivenza forzata o della perdita del lavoro durante il lock down.

Quest’ultima analisi porta il discorso sul difficile terreno dell’origine delle violenze, e delle “attenuanti” che si rischia di accordare agli autori. Un tema scottante e cruciale che associazioni come D.i.Re. (Donne in Rete Contro la Violenza) denuncia da anni, sottolineando mancanze legislative, ruolo dei media e della magistratura, luoghi comuni e ritardi culturali che finiscono per aggravare la situazione delle vittime. In particolare, recentemente, D.i.Re. ha pubblicato un’indagine condotta tra le avvocate dei Centri Anti Violenza, intitolato: “Il (non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni”.

Cinzia Marroccoli – D.i.Re.

L’argomento sarà oggetto di un webinar pubblico il 22 settembre. Il rapporto accusa i tribunali di dare scarso peso alle situazioni di violenza al momento di decidere l’affido dei figli, e i giudici di affidarsi troppo alle perizie dei Consulenti Tecnici d’Ufficio nell’emettere le sentenze. Tutto questo, secondo l’associazione che riunisce 82 organizzazioni, 100 centri anti violenza e 50 case rifugio, contribuisce alla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza. Ne abbiamo parlato con Cinzia Marroccoli, consigliera nazionale di D.i.Re, psicologa e consulente del C.A.V. Telefono Donna di Potenza.

Iniziamo col definire e tracciare i confini di “violenza di genere” e “violenza domestica”. Sono la stessa cosa, due facce dello stesso problema? Sono fenomeni contigui o nascono da radici diverse?

La definizione “violenza di genere” è più recente. Personalmente preferisco “violenza degli uomini contro le donne”, perché quando diciamo “violenza di genere” o “domestica” è come se in qualche modo si avesse paura di definire chi sia il soggetto e chi l’oggetto della violenza. Invece “violenza degli uomini contro le donne” è molto più esplicativo di quello che realmente accade.

C’è una componente diversa fra quello che avviene in famiglia è quello che avviene fuori dalla famiglia?

Parliamo di violenza domestica, quando la violenza è all’interno della famiglia: dell’uomo nei confronti di una donna [coinvolti] in una relazione affettiva. Può anche non essere all’interno di una casa, nel senso che questo donna e quest’uomo hanno una relazione ma non sono conviventi. Quindi parlare di “violenza domestica” e anche esemplificativo di un problema più ampio: la violenza in una relazione affettiva è di vari tipi: psicologica, sessuale, economica. Tutte varianti che riscontriamo frequentemente in un rapporto basato sulla violenza da parte dell’uomo. Quindi “violenza domestica” vuole dire tutto questo a cui, nei casi di famiglia con figli, si può aggiungere anche la “violenza assistita” da parte dei figli. Non possiamo parlare di violenza domestica in casi di stupro o violenza sessuale al di fuori di una relazione affettiva. Secondo le statistiche, quando parliamo di violenza degli uomini contro le donne, la più frequente è quella che avviene all’interno delle famiglie.

La radice della violenza è la stessa se avviene nella famiglia o fuori, oppure c’è una sfumatura diversa?

La radice è la stessa. È di tipo culturale. Viene dai rapporti di potere a svantaggio della donna che esistono nella nostra società. Non solo in Italia ma, come dico spesso “sotto tutti i cieli”, dall’Afghanistan ai cosiddetti paesi civili, la donna è comunque oggetto: cioè non è considerata uguale all’uomo. Questo è il punto principale: la donna è sempre considerata di serie b, rispetto all’uomo. La donna è sempre discriminata: nel lavoro, nella società, nella famiglia, nella politica, ovunque. Gli esempi sono tantissimi; nella nostra vita quotidiana riscontriamo normalmente questa radice di considerare la donna un oggetto dell’uomo. Questa è la radice del fenomeno della violenza che porta l’uomo ad “usare” la donna nei modi che ritiene opportuni; e quindi magari a commettere violenza sessuale nei confronti di una ragazza o di una donna che ha appena conosciuto, senza farsi molti problemi perché, in qualche modo, nella sua testa questo è un suo diritto. Diritto ancora più forte quando si tratta della “propria” moglie o compagna, nel senso di “oggetto di sua proprietà”, di cui fare ciò che vuole. “Tu sei mia moglie, devi sottostare a me, e io faccio quello che voglio”. Come se nella testa di questi uomini non esistessero il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, tutte le leggi fatte negli ultimi gli ultimi 50-70 anni. “Io sono il padrone, sono il capo, e tu devi sottostare ai miei voleri. Guai a te se ti ribelli, te ne vai, mi dici no”. Nella testa di quest’uomo non esiste che te ne vai: “Rimani con me o ti ammazzo, e posso anche ammazzare i tuoi figli”. Ovviamente stiamo parlando dell’uomo violento, non di tutti gli uomini.

È stato detto che durante le fasi peggiori della pandemia, quando si era costretti in casa, questo fenomeno è aumentato. Dall’osservatorio privilegiato del vostro centro antiviolenza che percezione avete avuto di questo periodo?

All’inizio del lock down, in tutti i nostri centri abbiamo riscontrato un silenzio assordante dei nostri telefoni: c’è stato un periodo durante il quale le donne non chiamavano. Evidentemente tutti eravamo un po’ sotto shock oppure pensavano che i centri anti violenza fossero chiusi come tanti altri servizi. In realtà noi abbiamo continuato a lavorare: in modo diverso abbiamo sempre dato il nostro aiuto. Abbiamo fatto una campagna di comunicazione che diceva: noi ci siamo, tutti i centri D.i.Re. sono aperti, ci potete telefonare; per far capire che eravamo pronti a rispondere. Il problema delle donne in situazioni di violenza è proprio riuscire a fare una telefonata nel momento in cui c’è un marito un compagno che sta sempre a casa. In quel momento chiaramente eravamo tutti dentro casa, quindi davamo suggerimenti tipo: “Telefona quando vai a fare la spesa, in farmacia, chiuditi in bagno”. La campagna è stata efficace perché dopo un po’ sono ricominciate le telefonate di donne che magari in quel momento dicevano: “Adesso non ci possiamo incontrare, ma appena finisce questo momento sicuramente sì”. Infatti, finito il lockdown, oltre alle telefonate abbiamo ricominciato a vedere le donne venire al centro per poi iniziare un percorso di aiuto.

A parte la fase iniziale di silenzio assordante, direbbe che il fenomeno della violenza contro le donne è cresciuto durante la pandemia? E adesso come è tornato “normale” nei numeri?

Non Posso dire che sia cresciuto e poi tornato normale. Dobbiamo anche pensare che c’è chi è rimasto chiuso in un appartamento di 100 metri quadrati, magari senza figli; e chi si è trovato a convivere 24 ore su 24 in un piccolo appartamento con bambini piccoli, con tutto quello lo stress che può comportare. In una situazione del genere è ovvio che la violenza si è acuita. Una violenza che c’era già, perché sicuramente non è il lockdown che ha fatto diventare gli uomini violenti: la violenza già c’era di sottofondo, oppure conclamata. Acuita non per motivi economici, ma sicuramente per quello stare insieme che comunque aumenta l’incapacità dell’uomo violento di controllare le sue reazioni. Questa incapacità di controllo diventa ancora più forte in una situazione di stress.

Che cos’è la “vittimizzazione secondaria” che subiscono le donne? Quali forme assume?

Noi parliamo di vittimizzazione, o rivittimizzazione, per esempio sui giornali, dopo un femminicidio. L’ultimo caso proprio è quello dell’articolo [di un quotidiano nazionale] su Chiara Ugolini, la ragazza ammazzata dal vicino di casa [che riportava] particolari come il top che indossava e cose che non hanno nulla a che fare con la morte della donna. Quando si dice “lei aveva chiesto il divorzio” o “era appena tornata da un viaggio da sola” invece di porre l’accento sul femminicidio e sulla cultura del femminicidio, si pone l’accento su ciò di “anormale” che avrebbe fatto la donna. Si cerca una colpa della donna che non esiste, e si cerca in tutti i modi di trovare delle attenuanti all’uomo: “aveva perso il lavoro”, “aveva problemi”, varie cose di questo genere che portano ad attribuire la colpa alla donna e a minimizzare quello che ha fatto l’uomo. Questa è una vittimizzazione sulla stampa. Un’altra vittimizzazione è quella che accade in tribunale. Quella classica avviene per esempio dopo una violenza sessuale, con la donna che si deve giustificare: “Che facevi lì a quell’ora, com’eri vestita?”, “Quali erano le sue abitudini sessuali?”, eccetera. Altra vittimizzazione è quello che accade con nei tribunali dei minori con la PAS (la Sindrome da Alienazione Genitoriale: controversa teoria che descrive una condizione che spingerebbe il figlio a rifiutare i rapporti con uno dei genitori separati, di solito il padre, su istigazione dell’altro genitore. La PAS è stata recentemente giudicata infondata dalla Cassazione, nda.), che non esiste altrove nel mondo. È una sindrome scientificamente inesistente che però nei nostri Tribunali ritorna di frequente, ora non più col nome “PAS” ma con gli stessi concetti. Diversi CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio, l’esperto nominato dal giudice nel procedimento, nda) parlano di “madre alienante”, “madre simbiotica” e altri aggettivi di questo genere. Questi CTU hanno lo scopo di allontanare i minori da una madre già vittimizzata, perché ha subito violenza e per questo ha fatto querela, che poi si trova a vivere una situazione che a volte diventa kafkiana. Non parlo di quando si arriva a toglierle i figli per affidarli al padre (succede in alcuni casi ma è la cosa peggiore) oppure affidarli a case famiglia (anche questo succede ma sono casi estremi). Anche non arrivando a questo, la donna passa attraverso un percorso fatto di relazioni, test, consultori, assistenti sociali, percorsi di mediazione e quant’altro il cui scopo in teoria è ritrovare una capacità genitoriale, cioè un “non conflitto” fra i coniugi per i figli, ma nella realtà si mettono sullo stesso piano i due genitori: chi ha subito violenza e chi l’ha fatta. Un percorso che non tiene assolutamente conto dei vissuti della donna, che si trova a dover affrontare questo percorso accanto a un marito violento. A volte non si capisce nemmeno quale sia scopo di tutto questo: il  percorso va avanti nonostante i figli dicano che non vogliono vedere il padre, per esempio per aver assistito alle violenze, perché non viene accettato che quest’uomo possa essersi comportato in un certo modo con il proprio figlio. L’assunto è “Comunque è il padre”.

Recentemente D.i.Re ha criticato pubblicamente il ruolo “pervasivo” dei CTU che influenzerebbero in maniera pesante le sentenze, sminuendo il ruolo del giudice.

Ci sono giudici che si fidano ciecamente dei CTU e non leggono nemmeno le carte. Non si fanno nemmeno un loro giudizio.

Non è un bene che gli esperti (psicologi dell’infanzia, operatori dei centri antiviolenza come voi) abbiano un forte peso sulla decisione di un giudice, che magari non ha esperienza di queste cose?

Non è un bene. Intanto ci vuole una formazione per i giudici in tribunale, cosa che oggi non accade. Una formazione che riguardi anche i CTU. Però a tutt’oggi la violenza non si incontra nei percorsi universitari: questo è il punto la violenza non si incontra. La formazione viene fatta da quel mondo che ha assiomi che non ci appartengono. Il primo è che la violenza non esiste: non si usa mai la parola “violenza”, ma si tratta di “conflittualità” tra l’uomo e la donna. Questo è il primo assunto: non è violenza ma conflitto. La differenza è fondamentale, perché quando si parla di conflitto uomo e donna sono sullo stesso piano: configgono e sono entrambi responsabili di quello che accade. Quando invece si parla di violenza c’è qualcuno che fa violenza e qualcun altro che ne è oggetto. Quindi, quando per l’assunto fondamentale nelle coppie non si parla di violenza ma di conflitto, ne consegue tutto il resto. Arriviamo ad assurdi terribili, perché si parla di conflitto vale a dire che anche tu, donna, sei responsabile: se tu parli male parli di un uomo, dici “mi fa violenza, di ogni tipo, per tutti i giorni dell’anno”, tu dimostri un’ostilità nei confronti di quell’uomo che non dovresti dimostrare, perché altrimenti la colpa è tua che sei ostile. Si crea un circolo vizioso. Ho visto donne distrutte psicologicamente da tutto questo, perché si trovano in una situazione kafkiana: pensando che con la denuncia hanno risolto tutto, e invece dopo spesso inizia un percorso terribile che a volte porta a dubitare della propria sanità mentale.

Perché succede questo? Quel mondo di esperti, di medici, di magistrati è fatto anche fatto anche di donne.

Perché non conoscono il fenomeno della violenza. Ci sono magistrati che si sono battuti per questo, come per esempio Fabio Roia (Presidente vicario del Tribunale di Milano, nda.) e Paola Di Nicola (Giudice penale del Tribunale di Roma, nda.). Non ce ne sono tanti altri che conoscono bene la violenza. Ce ne sono invece molti che non conoscono il fenomeno: si vede dalle sentenze che emettono. [Molti] danno per scontato che in una causa di separazione la donna inventa le violenze, che lo fa per ripicca, perché magari il marito l’ha tradita: è una cosa che si sente dire spessissimo. Molte donne ritirano la querela, questo è vero; ma non perché fosse inventata; il motivo è un altro, e chi si occupa di questo fa finta di non saperlo. Il ritiro della querela arriva per esempio per forti pressioni da parte della famiglia di origine e del marito. Ci possono essere anche questioni economiche: una donna che ha difficoltà, soprattutto dopo lock down. Avrete letto come me i dati sulla perdita del lavoro la parte delle donne, soprattutto giovani, che sono state le più colpite da questa crisi economica. Il problema quindi è il momento in cui la donna non ha un lavoro, e dipende in tutto e per tutto da quest’uomo [violento]: stringe i denti e va avanti; e se a un certo punto non ne può più, perché magari l’ha massacrata di botte, quel giorno si ritrova al pronto soccorso e dice “Sì, è stato lui”. Poi magari, due o tre giorni dopo, pensa “Ora che cosa faccio? Come vivo? Non ho una casa, non ho nulla, dove vado? Come vado avanti se ho dei bambini piccoli e non posso cercare un lavoro?”. Si viene a creare una situazione tale per cui molte donne ritirano la querela per le pressioni ricevute oppure per perché si rendono conto di non potercela fare. A me è capitato tante volte di donne che arrivano da noi a fare la querela e poi ritornano con i mariti e la ritirano. Poi magari succede che dopo qualche anno sono di nuovo da noi, e ovviamente non è cambiato nulla: quelle parole di lusinga dette dopo la querela: “Ho capito, ho sbagliato, non lo faccio più” sono solo parole al vento. Perché chi l’ha fatto una volta lo rifà; anzi, dopo una querela ritirata, la donna rientra in famiglia in una posizione di totale debolezza; e quindi sconta anche questo.

Quali sono le possibili soluzioni, sociali e politiche?

Per le soluzioni sociali ci vuole un cambiamento culturale a 360 gradi. Le soluzioni sono tutte nella Convenzione di Istanbul di dieci anni fa (“Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” firmata nel 2011 da 45 stati europei, nda.), che in Italia non è mai stata completamente applicata: lavorare soprattutto con le nuove generazioni, a cominciare dagli asili, dalle scuole elementari. Lavorare con i maschietti e le femminucce per un rispetto reciproco; perché il maschietto deve capire che la bambina è come lui, di pari dignità, e non un essere inferiore; e la bambina deve sapere di non esserlo. Il rispetto delle differenze è la cosa importante. Poi a questo deve fare seguito un cambiamento della stampa, perché certi articoli insinuano cose non vere. Che significa in un articolo, dopo l’ennesimo femminicidio, dire che l’uomo, poverino, aveva perso il lavoro? Ha ammazzato una donna! Insomma, può aver perso tutti i lavori di questo mondo ma la realtà è che è un assassino! Non ha diritto ad essere considerata una brava persona in un articolo di giornale. Il processo si fa dopo, ma tu [giornalista] devi raccontare i fatti. Noi chiamiamo “narrazione tossica” della violenza, quel modo distorto di raccontare che comunque fa cultura. Dobbiamo cambiare la visione.

Come dice la Convenzione di Istanbul, alla base di tutto c’è un cambiamento culturale 360°, a partire dalle scuole. Soprattutto c’è la formazione di tutte quelle persone che per lavoro hanno a che fare con la violenza: le forze dell’ordine; la magistratura; gli avvocati; gli psicologi e gli assistenti sociali. Ciò che manca è proprio una formazione basata sulla verità che la violenza [nella situazione attuale] non diminuisce. Il “Codice rosso” (la Legge 69 del 2019 che ha facilitato i percorsi di denuncia e di indagine per i reati di violenze su donne e minori, nda.) ha fatto delle cose, ma non prevedeva la formazione. Ciò significa non far capire a chi si occupa di queste situazioni qual è il meccanismo della violenza; ci si improvvisa. Molto spesso, anche in televisione, vengono chiamati esperti a discettare di violenza e magari non hanno mai parlato con una donna che si trova in questa situazione. Non hanno idea di che cosa significhi andare avanti e tornare indietro, come appunto il fatto di ritirare la querela: una donna viene vista come “non affidabile”; ma se conoscessero bene i meccanismi della violenza si renderebbero conto di come quell’andare e tornare indietro fa anche parte del percorso di una donna vittima di violenza che vuole uscire da quella situazione. È importante anche lavorare su tutto ciò che c’è intorno: dalla stampa alla pubblicità; anche le cose più banali come la presenza delle donne nei programmi TV, o nei nomi delle strade: tutto ciò il cui risultato è “la donna non vale perché non è presente”. Questo è il punto che dobbiamo in tutti i modi rovesciare: la donna vale come l’uomo. Lo dobbiamo rovesciare sia per le donne: “Io valgo anche se non sono un uomo, valgo come donna”; sia per gli uomini: “La donna vale quanto me”. Abbiamo libri delle scuole elementare che parlano ancora della mamma che stira e del papà che legge il giornale. Siamo ancora fermi agli anni ’50 quando invece il mondo è andato avanti. Viviamo ancora gli stereotipi. Mi perdoni questo “volo”: i talebani non sono lontanissimi da noi; come la famiglia di Saman (Saman Abbas, la ragazza scomparsa dal reggiano per la cui presunta morte sono indagati i familiari, nda.)… non sono fenomeni lontani da noi. Dobbiamo ricordarci che fino a pochi anni fa in Italia esistevano il delitto d’onore, la fuitina, l’adulterio per le donne ma non per gli uomini; esisteva il fatto che la donna non poteva fare determinati lavori; esisteva un capofamiglia che stabiliva addirittura se la moglie aveva il permesso di lavorare o meno. Dalle nostre parti (Basilicata, nda.) nel matrimonio religioso succede ancora che il papà accompagna all’altare la figlia e la dà in mano al futuro marito. Che cosa vuol dire? È un passaggio di possesso, di proprietà: “È stata ‘mia’ figlia e adesso la dono a te”. Quindi non dobbiamo andare tanto lontano. Quando in casi di violenze sessuali nei tribunali si dice “Come era vestita? Che ha fatto? Che ha detto?”. La donna che provoca. Perché i talebani vogliono le donne con il burqa? Perché il corpo della donna è provocazione nei confronti dell’uomo; ecco perché deve sparire, eliminato, coperto di nero, non deve esistere perché la donna è provocazione. Noi siamo ancora ad Eva che offre la mela, e Adamo la prende. Siamo ancora a questo.

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