Cambiamento Climatico

Da Greta, al green new deal, a COP 25. Un anno di politica climatica tra attese deluse e speranze riaccese.

Una chiacchierata con Gianni Silvestrini (Kyoto Club) sui principali momenti che hanno segnato il 2019 dal punto di vista del contrasto al cambiamento climatico

A inizio dicembre, un report dell’Organizzazione Metereologica Mondiale ha posizionato il 2019 al secondo posto tra gli anni più caldi della storia, evidenziando una volta di più come il riscaldamento globale sia una tendenza quanto mai attuale. Basti pensare che se consideriamo i 30 anni più caldi a partire dal 1800, 25 sono successivi al 1990.

Il 2019 sarà dunque ricordato come un anno molto caldo, ma anche come un anno in cui qualcosa si è mosso. Di cambiamento climatico e di riscaldamento globale si è infatti parlato molto, anche grazie al movimento dei Fridays For Future che ha portato in piazza milioni di giovani. A livello politico nella seconda parte dell’anno abbiamo assistito al dichiarato cambio di rotta a livello europeo da parte della neo commissaria Ursula von der Leyen, al green new deal annunciato dal governo italiano, al difficile confronto alla COP25 che si è chiusa a Madrid poche settimane fa.

Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, rilegge il 2019 del clima intervenendo su Ecosistema, trasmissione di Earth Day Italia in onda su Radio Vaticana Italia.

  

Partiamo dalla fine. Per molti la COP25 di Madrid si è risolta in un sostanziale fallimento. Lo stesso Segretario Generale ONU Guterres ha manifestato delusione sottolineando che l’umanità “rischia di perdere la sfida per sopravvivere”. Condivide questa delusione? Cosa si aspettava e cosa è mancato a COP25? 
In effetti è stata un’occasione mancata, non tanto per il mancato innalzamento degli obiettivi, che sarà uno dei temi che riguarderanno la prossima conferenza a Glasgow nel 2020, quanto piuttosto il fatto che su alcune technicalities su come devono essere conteggiate le emissioni, i trasferimenti nelle emissioni, c’è stata una resistenza da parte di alcuni paesi, per esempio il Brasile, e questo ha impedito di definire le regole con cui si calcoleranno nel 2020 la riduzione delle emissioni e la possibilità di fare interventi in paesi terzi come già previsto nel protocollo di Kyoto.
A mio parere nella conferenza è mancata una leadership che poteva essere assunta dall’Europa che una settimana prima aveva definito le regole e gli obiettivi del green new deal e l’obiettivo della decarbonizzazione a metà secolo. In questa fase in cui la Cina ha i suoi problemi e aumenta le emissioni, gli Stati Uniti remano contro, il Brasile rema contro, effettivamente la cosa sì è un po’ impantanata.

  

Gli Stati Uniti a inizio novembre hanno presentato i documenti per l’uscita dall’accordo di Parigi, altri grandi inquinatori come Brasile, India, Australia si sono messi di traverso e la Cina ha un atteggiamento ambiguo.  In Europa il movimento verde ha avuto molto successo alle ultime elezioni e la neo commissaria ha annunciato una svolta in senso green. Cosa manca per prendere questa leadership nella lotta contro il cambiamento climatico?
Secondo me potrebbe prenderla. Il fatto è che questo cambio di marcia in Europa, perché di questo dobbiamo parlare, è appena avvenuto e gli uomini non hanno ancora preso possesso delle postazioni per poter poi avere un ruolo non solo in Europa, ma a livello internazionale, cosa che secondo me avverrà.
Penso che l’anno prossimo l’Europa giocherà un ruolo importante con la decisione presa, che maturerà poi formalmente nel 2020, di alzare gli obiettivi (di riduzione delle emissioni nda) al 2030 che attualmente sono meno 40% rispetto al 1990. La Von der Leyen ha detto che l’anno prossimo alzeranno gli obiettivi a meno 50% e forse addirittura a meno 55% e questo indica un deciso cambio di marcia, un cambio di marcia tra l’altro assolutamente necessario se si vuole essere seri nell’altro obiettivo che è stato dichiarato a livello europeo cioè della carbon neutrality a metà secolo.
Se vogliamo arrivare a zero emissioni nette al 2050 a vent’anni di distanza dovremo essere già sulla buona strada, se avremo dimezzato le emissioni al 2030 avremo qualche probabilità di riuscire ad arrivare alla neutralità carbonica a metà secolo.

 

In Italia, ferma restando la guida 5 stelle, si è passati da un governo con la Lega, storicamente poco attenta a certe tematiche, a un governo con il Partito Democratico, teoricamente più sensibile. Il risultato è stato l’annuncio di un green new deal e di provvedimenti come il decreto clima. All’atto pratico le sembra cambiato qualcosa?
La verifica più importante è il piano nazionale energia e clima che è stato presentato a Bruxelles a gennaio e che, dopo una serie di osservazioni da parte di stakeholder nazionali e della Commissione Europea, verrà presentato nella sua forma definitiva alla fine di dicembre. Da quello che sappiamo questo programma è quantomeno inadeguato, nel senso che gli obiettivi presentati a gennaio, che forse verranno alzati leggermente nella versione definitiva, parlano del 37% di emissioni in meno a fronte del meno 50/55% che si sta discutendo in Europa. C’è una discrasia netta tra quello che si sta discutendo in Italia e le decisioni che vengono prese in Europa.
Per quanto riguarda poi le decisioni più pratiche vediamo che le rinnovabili in Italia sono bloccate dal 2012 – 2013, sono 5/6 anni calma piatta, con leggeri incrementi, ma non c’è quel salto di qualità che si dovrebbe avere.
Decreto Clima è un nome un po’ ambizioso per quello che è il contenuto. Alcune cose sono anche condivisibili, ma, se faccio il confronto con la Germania, la Germania il suo decreto clima l’ha deciso con 22 ore di discussione dei vari ministri e con un pacchetto di cento miliardi di euro mentre il nostro pacchetto clima è stato presentato dal ministro dell’ambiente senza concertarlo con gli altri ministri, non è neanche andato in consiglio dei ministri.
La nostra politica non ha capito l’ampiezza della sfida e le molte opportunità che vi sono connesse. Pensiamo alla mobilità elettrica per esempio che è una sfida che rappresenta una straordinaria opportunità di conversione delle nostre industrie, ma anche un rischio per cui è importante che il mondo politico definisca degli obiettivi ambiziosi.

 

Ferma restando la difficile congiuntura economica in cui si trova il nostro paese lei dove metterebbe mano?
Se vogliamo raggiungere obiettivi ambiziosi guardiamo a tre grandi settori.
Nella generazione elettrica le rinnovabili hanno avuto un tale calo di prezzi, un modulo fotovoltaico oggi costa dieci volte di meno di dieci anni fa, che avranno bisogno di pochissimi incentivi; anzi, io penso che nel prossimo decennio in molti casi verranno installate senza bisogno di incentivi. È un settore in cui c’è solo bisogno di nuove regole: le comunità energetiche per esempio sono straordinarie opportunità, ma  bisogna che vengano concesse alcune cose che oggi non si possono fare come per esempio mettere il fotovoltaico sul tetto dei condomini e distribuirlo negli appartamenti sottostanti.
Altro settore  importante è quello dell’edilizia che deve fare un salto di qualità perché dobbiamo accelerare notevolmente la riqualificazione energetica di interi edifici, quello che in Europa si chiama building renovation, perché in qualche caso si possono ottenere risparmi del 60, 65, 70%. Devo dire che il fatto che abbiano dato incentivo per imbiancare le facciate mi pare assolutamente contraddittorio perché se oggi imbianco una facciata per i successivi dieci, vent’anni non la tocco mentre sarebbe necessario abbinare l’estetica alla tematica ambientale.
Ultimo tema è quello della mobilità. Andiamo verso la rivoluzione della mobilità elettrica e sinora eravamo indietro perché Fiat FCA non ci aveva mai creduto, ma adesso finalmente si sta ravvedendo. Il tema reale non è tanto le auto, quanto le batterie perché la differenza tra un’auto normale e una elettrica è il costo della batteria. Qui c’è finalmente una sveglia da parte dell’Europa che ha creato un’alleanza per le batterie di cui stanno approfittando Francia, Germania e alcuni paesi nordici: anche l’Italia nelle ultime riunioni si è fatta viva e questo è un altro elemento importante perché altrimenti dipenderemo dalla Cina e dall’Asia come oggi vi dipendiamo per il fotovoltaico.
C’è una rivoluzione in atto con grandi prospettive dal punto di vista delle disruptive technologies, tecnologie che hanno effetto dirompente nei settori in cui si applicano.
Infine a mio parere non si raggiungeranno obiettivi così ambiziosi come la zero emissioni nette fra 30 anni se non si rivedranno contemporaneamente anche gli stili di vita e lo stesso modello economico.

 

La Camera dei Deputati ha dichiarato l’emergenza climatica. È un passaggio solo simbolico o può produrre degli effetti concreti?
Temo che sia un passaggio solo simbolico, nel senso che se effettivamente si comprendesse la gravità della situazione che è connessa alla dichiarazione di emergenza climatica tutti i vari ministeri quindi l’industria, i trasporti, l’agricoltura, sarebbero coinvolti in uno screening di tutte le leggi, le normative, i decreti che vengono emessi alla luce del fatto che siano o meno coerenti con un processo di decarbonizzazione.
Questa consapevolezza, ahimè, non c’è.

 

Il 2019 sarà ricordato anche come l’anno di Greta Thunberg e del movimento dei Fridays For Future che ha visto milioni di ragazzi scendere in piazza in tutto il mondo per chiedere politiche climatiche serie. È un movimento che può far scalare posizioni all’ambiente nell’agenda politica? In fondo, se vogliamo essere cinici, sono milioni di futuri elettori.
Assolutamente sì. Se nell’ultimo anno a livello europeo, ma non solo, pensiamo anche alla Nuova Zelanda, i governi hanno alzato gli obiettivi, è grazie a questo movimento straordinario dei giovani che capiscono che è il loro futuro ad essere a rischio, capiscono che quando saranno grandi rischiano di trovarsi in un mondo assolutamente invivibile. Questa spinta credo proprio che non terminerà, continuerà e sarà molto importante per riuscire a far comprendere che è necessario un salto di qualità nell’adozione delle politiche.

  

Che 2020 ci aspetta sul fronte clima?
Sarà un anno importante perché sarà l’anno in cui i paesi dovranno dichiarare la disponibilità alzare i propri obiettivi al 2030. L’Europa sicuramente lo farà e lo faranno anche altri paesi che l’hanno già dichiarato.
Sarà molto importante vedere chi vince le elezioni negli Stati Uniti che, usciranno ufficialmente (dall’accordo di Parigi nda) un giorno prima dell’insediamento del prossimo presidente. Se a novembre il prossimo presidente degli Stati Uniti non fosse Trump e quindi gli Stati Uniti potessero rientrare nel gioco avremmo molte più chance di riuscire ad affrontare la sfida climatica con delle alleanze forti, per esempio tra Europa, Stati Uniti e Cina.

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