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Coronavirus: l’agricoltura italiana perde fatturato e reputazione

“Fuga” dei lavoratori stranieri; speculazioni dall’estero contro i prodotti italiani; crollo dei fatturati per gli agriturismi; blocco alle coltivazioni e agli allevamenti nella zona rossa. Coldiretti denuncia i primi effetti dell’emergenza sul settore agricolo, che si sommano a quelli dei dazi americani, al blocco delle esportazioni in Russia e alle conseguenze Brexit.

Tra i settori economici più colpiti dalle conseguenze dell’emergenza Coronavirus c’è l’agricoltura. Nelle ultime settimane Coldiretti ha lanciato diversi allarmi in proposito. Ad esempio, l’organizzazione degli imprenditori agricoli ha reso noto che 500 aziende situate nella zona rossa in Lombardia e Veneto rischiano la paralisi delle attività per l’impossibilità dei lavoratori e dei tecnici di muoversi e accedere liberamente alle vigne, agli allevamenti, ai campi. Situazione critica per gli agriturismi: in tutta la penisola 23 mila strutture hanno registrato un calo delle presenze del 50%, che arriva all’azzeramento totale nelle aree del Veneto e delle Lombardia vicine alle zone rosse. Anche la prossima stagione turistica è a forte rischio, con la metà delle prenotazioni che hanno ricevuto disdetta. Un’altra emergenza sono i lavoratori stranieri che rappresentano il 27% delle giornate-lavoro dell’agricoltura italiana: Coldiretti ha sollevato il problema della quarantena imposta dal governo rumeno ai propri cittadini provenienti dall’Italia; ciò scoraggerebbe gran parte degli oltre 100 mila rumeni che normalmente si muovono dal loro paese per lavorare nelle aziende agricole italiane, e che rappresentano la maggiore comunità di lavoratori stranieri del settore.

Ecosistema”, il programma di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana ne ha parlato con Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti*.

 

Cominciamo dalla situazione delle aziende agricole che sono dentro la zona rossa dei famosi undici comuni tra Lombardia e Veneto. Si parla e si vedono sempre immagini delle città, degli ospedali e delle strade, ma poco di quello che c’è intorno. Quanto è “agricola” questa zona rossa?

La zona rossa interessa circa 500 aziende agricole, di cui un centinaio sono aziende zootecniche; ci sono una ventina di agriturismi e circa 250 ettari di coltivazione a vigneto nella zona del Veneto.

Si potrebbe pensare che una settimana di interruzione dei lavori dei campi non sia un grande danno. Qual è in realtà la situazione che stanno vivendo agricoltori e allevatori?

Innanzitutto una settimana di lavoro diventa assolutamente imprescindibile. Il lavoro non può essere interrotto, soprattutto per le aziende zootecniche: chi ha bovini da latte, o maiali, ma anche altri allevamenti, ovviamente deve accudire questi animali quotidianamente. Gli animali da latte devono essere munti due volte al giorno, per cui è chiaro che non ci può essere interruzione di quest’attività. Altro discorso può essere per le aziende che hanno coltivazioni vegetali, alcune delle quali sono in riposo invernale, e magari c’è da effettuare la potatura o altri tipi di interventi. Ma, invece, a ortaggi ci possono essere colture in pieno campo.

La situazione molto particolare è quella di agriturismi e cantine che in questa stagione hanno comunque la presenza di ospiti e visitatori che, ad esempio, vanno a conoscere degustare e acquistare il vino, e la cui attività è completamente bloccata perché non ci si può recare nella zona rossa. Perciò chi ha un agriturismo o una cantina nella zona rossa, in questo momento vede azzerata la sua attività.

Torniamo al campo e alla mungitura. Nell’immaginario collettivo, forse datato, c’è il contadino che vive vicino al suo campo e alla sua stalla, quindi nulla gli impedirebbe di assolvere alle sue funzioni. Qual è la realtà? Quali sono i problemi logistici?

Il problema può essere diversificato. In alcuni casi quello che dice lei corrisponde al vero: l’azienda e la casa sono un unicum, e quindi semplicemente si esce dalla casa per entrare nell’azienda e nella stalla. Però dobbiamo considerare che molte aziende hanno una dimensione importante, per cui hanno dei dipendenti che spesso non risiedono nello stesso luogo: si spostano, possono venire dall’esterno della zona rossa, o muoversi all’interno della zona rossa. Lo stesso imprenditore potrebbe risiedere in una zona diversa è quindi dover entrare nella zona rossa. Quindi da questo punto di vista ci sono delle difficoltà: sono previste delle deroghe, però è chiaro che tutto questo complica la vita, la logistica e l’attività aziendale.

Coldiretti ha denunciato anche “speculazioni contro i territori colpiti”. Speculazioni sui prodotti della terra e dell’allevamento. Speculazioni di che tipo? Da parte di chi?

Le speculazioni purtroppo sono estese. In questo momento stiamo vedendo che la speculazione riguarda tutti i prodotti italiani. Dall’estero ci richiedono certificazioni assurde di assenza di contaminazione dal coronavirus, anche per prodotti che non provengono né dalla zona rossa né dalla zona gialla (dal primo marzo le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, e le province di Pesaro, Urbino e Savona, nda.) o addirittura da regioni che non hanno evidenziato nessun caso. Quindi subiamo una discriminazione dei prodotti agroalimentari italiani, probabilmente con il tentativo, da parte di qualcuno, di sostituirli o di sostituirsi sul mercato a queste nostre produzioni.

C’è un altro problema molto particolare. I provvedimenti presi da altri paesi che hanno ripercussioni sull’arrivo di lavoratori stranieri per le campagne Italiane. Possiamo fare un quadro di questa situazione?

Circa un quarto del made in Italy (agroalimentare, nda) dipende da lavoratori stranieri. Ogni anno nelle nostre campagne ci sono oltre 370 mila lavoratori stagionali che vengono nel nostro paese e aiutano le imprese agricole a realizzare le eccellenze del made in Italy. Provengono da 155 paesi diversi, e la comunità più consistente è quella rumena con 107 mila lavoratori. La Romania ha preso una decisione in base alla quale i lavoratori rumeni che dovessero essere stati in Italia, dovranno soggiacere a una quarantena una volta rientrati nel loro paese che, in sostanza, li bloccherà per i 14/15 giorni canonici di verifica di quello che può essere lo stato di salute. Questo diventa un vero impedimento nel reperimento di manodopera, per le conseguenze che complicherebbero la vita [dei lavoratori rumeni] rimasti in Italia per un certo numero di settimane o di mesi, nel momento in cui tornassero nel loro paese.

Questo vuol dire che sul territorio italiano non c’è abbastanza manodopera per l’agricoltura, ma ci avvaliamo regolarmente di manodopera stagionale che viene dall’estero?

Assolutamente. La comunità più numerosa è quella rumena, poi ci sono quella marocchina, con oltre 35 mila persone, e quella indiana con oltre 34 mila addetti, che vengono o risiedono nel nostro paese per un certo periodo di mesi all’anno, e che appunto sono i principali collaboratori nelle nostre aziende per l’attività agricola; proprio perché o non si trova manodopera o non se ne trova a sufficienza.

Superato il momento della prima emergenza questo è il momento in cui molte associazioni, rappresentanze, come anche Confindustria, stanno chiedendo al Governo delle misure per non peggiorare la crisi economica che già si paventa. Coldiretti ha fatto alcune richieste. Che cosa ne pensate di quello che si sta preparando? Si è parlato per esempio di rinvio dei versamenti dei contributi previdenziali e rinvio delle rate della rottamazione delle cartelle*.

A nostro modo di vedere in una situazione di questo genere questo è il minimo sindacale, soprattutto per le zone rosse. Nel senso che è il minimo che debba assolutamente essere messo in pista, ma sicuramente non basta. Non basta innanzitutto perché anche le zone limitrofe alle zone rosse sono in una bruttissima situazione.

Abbiamo tutta una serie di altre problematiche. Ad esempio le difficoltà delle aziende agrituristiche che in questo momento vedono disdire le prenotazioni, addirittura per il periodo estivo, per non parlare del periodo invernale o primaverile. Abbiamo una forte preoccupazione per i prossimi mesi perché le aziende, sia delle zone rosse che sicuramente sono più interessate ma anche nelle altre regioni del nord, del centro e del sud, si trovano in questo momento in una condizione di assoluta necessità: abbiamo una forte riduzione dei fatturati e un blocco delle visite, delle prenotazioni, e della presenza di turisti.

Credo il nostro Governo dovrà mettere in pista un tipo di intervento a 360 gradi. Ricordiamo che, già prima dell’emergenza coronavirus nel nostro paese, stavamo scontando innanzi tutto il blocco, o comunque il fortissimo rallentamento dell’economia cinese, che è la locomotiva, il traino dell’economia mondiale. Il fatto che la Cina avesse iniziato a cancellare le fiere, a non partecipare agli eventi fieristici promozionali in Europa, a ridurre i consumi e le importazioni, a gennaio ha portato a una frenata dell’11,9% delle nostre esportazioni verso quel paese. Inoltre già stavamo scontando: i dazi degli Stati Uniti che, ad esempio, per due mesi hanno portato al dimezzamento delle esportazioni di Parmigiano Reggiano e Grana Padano; quello che è ancora l’embargo russo; e poi le problematiche legate alla Brexit.

Abbiamo sicuramente bisogno di misure e interventi che interessino lo stato di salute dell’economia delle aziende, e quindi la sospensione delle cartelle, dei mutui, delle rate, ecc. Ma c’è anche bisogno di interventi diretti per sostenere le aziende. Abbiamo bisogno di una fortissima attività diplomatica per riaprire i canali che hanno difficoltà e di un recupero di reputazione; perché in queste ultime settimane succede addirittura che vengano bloccati i turisti italiani in giro per il mondo. La nostra immagine è sicuramente crollata. Per tornare a esportare i nostri prodotti, che avevano e hanno un fortissimo appeal in giro per il mondo, ci vuole un’intensa attività diplomatica; per dimostrare e riaccreditare il nostro come un paese ai vertici della sicurezza alimentare ed igienico sanitaria.
* NB: l’intervista è stata rilasciata il 28 febbraio, prima del decreto legge del 1 marzo

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