Società

Violenza di genere: alle donne crediamo solo nell’1,5% dei casi

La giudice Paola Di Nicola: “Le donne che non denunciano sono il 93%. Non possono aver fiducia nelle istituzioni”. Si alle quote di genere nel CSM: “necessarie in qualsiasi contesto ci sia un blocco al riconoscimento di competenza e professionalità delle donne.”

Secondo il recente Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere” nei primi dieci mesi di quest’anno, 94 donne sono state vittime di omicidio in Italia, alla terribile media di quasi una ogni 3 giorni. 80 su 94 sono crimini commessi nell’ambito familiare o affettivo, e 60 all’interno relazione di coppia. Il femminicidio però è solo la punta dell’iceberg delle violenze di genere e, allargando lo sguardo, del più ampio tema della disparità tra uomini e donne nella nostra società.

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, Giulia Morello, coordinatrice della campagna 4women4earth di Earth Day Italia, ha intervistato* Paola di Nicola, giudice penale del Tribunale di Roma, autrice del libro “La mia parola contro la sua: Ovvero quando il pregiudizio è più importante del giudizio”, personalità molto attiva nelle campagne di sensibilizzazione e di denuncia contro la violenza di genere.

Le donne magistrato sono arrivate in Italia solo nel 1963. Perché così tardi, e che cosa ha comportato questo ritardo?

In ritardo perché l’Assemblea Costituente decise che le donne non fossero all’altezza di giudicare: perché per ragioni… di carattere “biologico”, non erano “equilibrate”. Nonostante un’importantissima battaglia culturale e giuridica delle ventuno donne costituenti dentro l’Assemblea, alla fine prevalsero gli uomini che, tengo a sottolinearlo, appartenevano a “tutti” gli orientamenti politici, per escludere le donne dall’attività dell’interpretazione. Perché l’interpretazione della norma giuridica dà forma alla realtà, e questo alle donne non poteva essere consentito.
Adesso le donne sono oltre il 52% nella magistratura italiana. Negli ultimi concorsi sono quasi arrivate al 70%. Quindi il punto di vista delle donne, escluso per millenni dall’interpretazione, ormai invece è presente da protagonista.

È stata tra le prime in Italia a farsi chiamare “la” giudice. Quanto, gli stereotipi, influenzano il linguaggio? E quanto il cambiamento di linguaggio contribuisce invece ad abbattere gli stereotipi?

La lingua è uno degli strumenti più potenti a disposizione dell’essere umano, non solo rispetto alla comunicazione ma anche rispetto alla trasmissione di una scala di valori e di un’identità. Non chiamarsi al femminile, e accettare per una donna il maschile, specialmente all’interno delle istituzioni, vuol dire non riconoscere il valore, la potenza del femminile. Questo è il motivo per il quale, a seguito delle straordinarie battaglie culturali che le donne hanno fatto nel nostro paese perché io indossassi la toga, mi è sembrato il minimo chiamarmi al femminile: per un debito di riconoscenza, culturale e di identità.

A proposito di stereotipi, ne ha parlato in un libro intitolato “La mia parola contro la sua”. Come nasce l’idea di questo libro? E soprattutto: quanto sono presenti gli stereotipi nelle aule del tribunale?

Nelle aule del tribunale e gli stereotipi e i pregiudizi nei confronti delle donne sono presenti come in qualsiasi altro contesto sociale, culturale e istituzionale. L’aula di giustizia non fa differenza rispetto al resto, perché al suo interno entrano uomini e donne che ne sono completamente inquinati. La narrazione in cui uomini e donne devono appartenere ad un modello, un’identità data e determinata, appartiene da sempre a qualsiasi contesto del mondo. È un problema culturale mondiale. Se noi giudici non partiamo dai fatti e dalla realtà per come ci viene rappresentata nella sua crudezza, senza ammantarla da stereotipi o da ruoli sociali precostituiti, non riusciremo mai a valutare quel fatto per quello che è; ma lo modificheremo secondo un nostro punto di vista che non è quello del diritto, ma quello della cultura e del pregiudizio del singolo giudice. Questo noi, in quanto istituzione, non lo possiamo consentire.

Può fare un esempio: uno stereotipo che ha visto rappresentato nell’aula del tribunale?

Quello più ricorrente, che è quotidiano e avviene tuttora, è qualificare, ritenere o nominare come “lite familiare” la violenza nei confronti di una donna da parte del marito. Questo è sbagliato perché non corrisponde alla realtà. Ad esempio una donna viene picchiata quotidianamente perché non si accetta che lavori fino a tardi, o che non voglia assolvere alle incombenze domestiche, che esca con le amiche, o per qualsiasi altra ragione. Quando un uomo reagisce all’esigenza di libertà di una donna picchiandola, non è in grado di creare una relazione paritaria. E quando questa donna va a raccontare o denunciare il fatto in un commissariato di polizia, in una stazione dei carabinieri, o all’interno di un’aula di giustizia, troppo spesso accade che chi l’ascolta ritenga che quella sia stata una semplice lite familiare. Questo vuol dire avere stereotipi e pregiudizi: non guardare i fatti per ciò che sono ma valutarli sulla base del nostro preconcetto di dove e come si sono formati e verificati quei fatti.

Come si costruisce una cultura della parità di genere? Da dove dobbiamo partire? Quale pensa possa essere il punto d’arrivo?

La parità di genere nasce e cresce nelle nostre famiglie: nell’esempio che proponiamo ai nostri figli e alle nostre figlie, senza imporre un ruolo sociale o gerarchico all’interno delle famiglie, lasciando che ciascuno si comporti, viva ed esprima quello che è, nella sua dimensione naturale e spirituale; senza imporre necessariamente delle connotazioni per il solo fatto di essere nati femmine o maschi. E quindi questo riguarda sia gli uomini sia le donne.

I dati sulla violenza di genere sono allarmanti, eppure sono ancora poche le donne che denunciano. Perché hanno così poca fiducia nelle istituzioni?

Le donne che non denunciano sono il 93% e nelle nostre aule vediamo soltanto il restante 7%. Di questo 7%, la metà delle denunce vengono archiviate. Quindi resta il 3,5% la cui metà viene conclusa con assoluzioni. Quindi possiamo dire che arrivano a sentenza di condanna, e quindi si crede alle donne, soltanto nell’1,5% dei casi. Questo le fa capire che le donne “non possono” avere fiducia nelle istituzioni, perché troppo spesso le istituzioni non rispondono al fatto che viene denunciato. La violenza contro le donne viene ridimensionata, ma non dalle aule giudiziarie: viene ridimensionata nelle nostre famiglie, quando le donne raccontano alle loro madri, ai loro padri, al collega di lavoro. Tutti concorrono a dire: “Che cosa hai fatto perché sia avvenuta quella violenza?”; quindi attribuendo la responsabilità alla vittima. Questo accade solo nei reati di violenza contro le donne: in nessun altro tipo di reato.

A suo avviso sarebbe utile al raggiungimento della parità l’introduzione delle quote di genere negli uffici direttivi della magistratura e nel Consiglio Superiore della Magistratura?

Io penso che le quote di risultato siano necessarie in qualsiasi contesto in cui ci sia un blocco al riconoscimento della competenza e della professionalità delle donne. Questo riguarda quindi il Consiglio Superiore della Magistratura e tutti gli uffici direttivi di qualsiasi istituzione; non perché debbano andarci le donne in quanto tali, ma perché alle donne competenti non si può impedire di arrivare. Questo è il tema.

(Giulia Morello)

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